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giovedì 19 dicembre 2019

PIAZZA FONTANA Cinquant'anni fa - L'arresto di Valpreda

Pietro Valpreda è milanese, ha 37 anni, è figlio di piccoli commercianti, ha la passione della danza e di professione fa il ballerino di teatro. Pietro frequenta i circoli anarchici ed anche, come tutti gli artisti e gli alternativi di allora, i locali intorno a Brera. Agli inizi del 1969 si trasferisce a Roma, dove con alcuni giovanissimi compagni mette insieme un gruppo, chiamato "22  Marzo", un piccolo gruppo al cui interno si infiltra subito un fascista, Mario Michele Merlino e vi viene distaccato addirittura un poliziotto, Andrea lppoliti. Valpreda è ben noto alla polizia milanese perché ha qualche anno più della media, fa un lavoro saltuario, è un tipo estroverso che non teme di farsi notare. Pietro ha la erre arrotata ed è un po' "bauscia"  come si dice a Milano, dove il genere è diffuso. Nelle ultime manifestazioni ha coniato  gli slogan: "Satana Lucifero Belzebù” il più truculento "bombe, sangue, anarchia" urlati a squarciagola e palesemente ironici e provocatori, come è tipico del suo repertorio e come è anche quel "Il Papa alla ghigliottina" per cui viene incriminato dal Giudice Amati per "offesa a capo di Stato estero". 
Valpreda è un poco burlone, "un simpatico  casinista" lo ha definito una volta Licia Pinelli, ma è anche persona sensibile e di buona cultura, molto socievole e che in casa ha una ricca biblioteca. 
Pino e Pietro si conoscono bene, anche se Pinelli non sempre condivide quel fare goliardico e tra i due nasce ogni tanto qualche screzio e qualche litigio — come si conviene tra compagni  — ma nulla di serio e tanto meno duraturo. I media ingigantiranno poi indecentemente questo aspetto, al solo scopo di denigrare Valpreda
La mattina del 15  dicembre, mentre si svolgono i fuerali delle vittime, Pietro Valpreda, 36 anni, milanese, viene fermato a Milano all'interno del Palazzo di Giustizia mentre alle 10,35 esce dall'ufficio del Giudice Amati che lo aveva convocato tempo prima per una imputazione di "offesa al Papa". 
Così racconta Valpreda: “Il giudice vuole vedermi. Così mi comunica Improta, il quale aggiunge che il mio avvocato mi attende al palazzo di giustizia. Erano ormai due giorni e una notte che non conoscevo un attimo di respiro. La testa mi ciondolava sul petto, gli occhi mi bruciavano, mi sentivo sporco, coi vestiti stazzonati, la barba che mi pungeva. Capii che anche questo piccolo particolare del non consentire di radersi è un modo di stroncare l'individuo caduto nelle mani della polizia. Ero veramente a terra, mi sentivo uno straccio, ma il peggio doveva avvenire. Attraversiamo il cortile del “palazzaccio”, saliamo una rampa di scale, percorriamo corridoi bui e tetri. Mi trovo seduto su una panca contro il muro. Mi guardo attorno e a un tratto noto quattro persone che spiccano in mezzo agli altri agenti trasandati. Mi accompagnano. Sono quattro signori pressappoco della mia statura, ma hanno tutti un aspetto lindo e ordinato, il loro bel cappottino alla moda, la camicia bianca con la cravatta ben annodata, le guance rasate di fresco, i capelli pettinati come si deve. Sembrano pronti per andare a una festa. Quale festa, la mia? Così trascorrono le ore, non saprei dire con esattezza quanto tempo ho passato su quella panca. A un certo punto riconosco l'avvocato Calvi. Si fa largo tra i poliziotti e mi viene incontro. Mi alzo per stringergli la mano e chiedo, con la speranza di avere finalmente un po' di luce, di uscire da questo stato di rimbambimento: " Guido! Ma che cosa sta succedendo? Cosa vogliono da me? ". Calvi mi tranquillizza dicendo che devo subire un confronto *. Per la legge, non può aggiungere altro; riesce solo a sussurrarmi: "
Stai calmo".La stanza del giudice è vasta, asimmetrica, male illuminata, cupa da mettere tristezza. Al centro troneggia il giudice, al suo fianco un uomo alla macchina da scrivere. Sulla destra, una decina di funzionari e questurini. Con me entrano i quattro figurini. Nessuno parla, nessuno si presenta. Mi guardo attorno, ma tra i presenti non vedo facce note. Qualcuno dà l'ordine di disporsi di fronte alla porta.
Comincia il confronto. Fra i cinque io sono secondo partendo dalla mia destra. Calvi mi si avvicina, cerca di rassettarmi la camicia e la cravatta spiegazzata, mi ravvia i capelli con la mano e mi dà un paio di colpetti sulla guancia esortandomi a tenere gli occhi aperti. Faccio uno sforzo per sembrare il più normale possibile. Ma non posso cancellare le trenta ore di stanchezza fisica e morale. Si spalanca la porta, entrano tre persone. Improta ha accompagnato nella stanza del giudice il famoso teste Rolandi. Ricordo che aveva un modo strano di agitare il braccio destro. Si aggiustava di continuo la sciarpa scura attorno al collo. Per tutto il breve periodo di tempo che rimase nella stanza evitò di guardarmi negli occhi. Il giudice Occorsio, si rivolge a Rolandi e gli pone la domanda di rito: " Riconosce in uno di questi signori il passeggero del suo taxi? ". Rolandi si sposta leggermente verso di noi che siamo schierati. Rivedo la scena: il tassista è un uomo robusto, ma in questo momento si stringe nelle spalle come per farsi piccolo, si curva, spingendo in avanti la testa come una tartaruga. In mezzo al suo faccione spicca il naso a patata. Sta girato verso il giudice e non alza quasi mai da terra lo sguardo sfuggente. Ha un po' l'aria furtiva, dipenderà forse anche dal vestiario dimesso. Sembra il più traumatizzato di tutti. Solleva impercettibilmente lo sguardo, lo fa scorrere velocemente su noi cinque allineati e senza esitazione mi indica con un dito dicendo in milanese:"L'è lü" (è lui).
La mia reazione, anche se ero stupito, è stata di fare un piccolo passo avanti ed esclamare: "Ma mi hai guardato bene?". Per alcuni istanti nella sala ci fu silenzio, poi Rolandi disse qualcosa, una breve frase come "Non c'è" o forse "Allora non c'è ". A questo punto intervenne l'avvocato Calvi il quale, rivolgendosi al giudice, gli fece notare che il teste aveva praticamente ritrattato. Come ho sentito io, così devono aver sentito tutti i presenti. Ma la reazione di Occorsio fu fulminea: si rivolse in fretta a quanti erano nella stanza chiedendo, quasi avesse voluto fornire lui stesso la risposta e evitarne altre: " Qualcuno ha sentito? no? Lei Rolandi conferma il riconoscimento? Bene, cancelliere, scriva che il teste conferma il riconoscimento ". E' avvenuto tutto in pochi secondi. Occorsio parla come accavallando le frasi, incastrandole l'una dentro l'altra, tutti i presenti fanno scena muta. Cade nel vuoto e nell'omertà la contestazione di Calvi sulla ritrattazione di Rolandi.
Così, con quella piccola frase in dialetto milanese, si decide il destino mio e dei miei compagni” .

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