Di fronte alla devastazione del contesto sociale e alla degradazione delle comunità compaiono due tipi di lotta. Uno punta a ricostruire la comunità al margine dell’ordine sociale dominante scontrandosi con esso; l’altro cerca di agire dall’interno servendosi delle istituzioni, cercando obiettivi limitati mediante la negoziazione. Ci troviamo di fronte alla vecchia alternativa tra Riforma o Rivoluzione. I partigiani delle riforme e del dialogo con l’ordine stabilito pensano che non si debbano contrapporre i miglioramenti quotidiani ottenuti nei palazzi alle mete finali perseguite in piazza; alla fin fine la meta, qualunque essa sia, non ha importanza; il successo costante delle riforme è tutto. I partigiani della liquidazione sociale pensano il contrario: che il fine è tutto, che le riforme non sono possibili nelle condizioni attuali di sviluppo capitalista e che non si possono raggiungere degli obiettivi, per minimi che siano, se non attraverso dure lotte e ampie mobilitazioni. Inoltre, alla fin fine, tra le lotte per fermare gli effetti catastrofici dell’ideologia dello sviluppo e la ricostruzione di una società libera in cui l’essere umano sia la misura di tutte le cose, esiste un vincolo indissolubile: le lotte sono il mezzo, l’umanizzazione della società il fine.
La controversia tra i metodi istituzionali e l’azione diretta di massa non è dunque una semplice questione di tattica, perché in gioco c’è l’esistenza stessa dei movimenti di lotta contro l’inquinamento e la degradazione in quanto movimenti reali di trasformazione sociale. Sono metodi che non si possono combinare: o si sceglie la via della pressione istituzionale e si accettano le regole del gioco politico, oppure non si accettano e si sceglie la via dell’alterazione dell’ordine. Il modo in cui l’ordine viene alterato dipende dal momento; nell’assemblea il chicco nuovo rompe il guscio, cioè il movimento di lotta trova la sua rotta e la sua adeguata espressione. Attraverso il sistema delle assemblee – l’unico davvero democratico – il movimento di lotta può trasformarsi in un potere comunale parallelo, ed è precisamente di questo che si tratta; attraverso
il sistema delle piattaforme civiche il movimento continuerà ad essere un complemento secondario della politica, lo sfondo delle discussioni su quale sia il livello tollerabile di distruzione. I piattaformisti, che non a caso di solito sono militanti sindacali o politici, cercano la risoluzione del conflitto tra gerarchi, avvocati ed esperti, dimenticando che quello che è in gioco non sono le loro poltrone ma la vita delle persone messe, senza il loro consenso, sul piatto della bilancia degli interscambi mondiali. È proprio per questo che anche la più modesta delle lotte è troppo importante per essere lasciata nelle mani di questi apprendisti stregoni, e la popolazione colpita non può occuparsi di argomenti che così tanto la riguardano se non attraverso le assemblee.
Bodo’s Project è un progetto di comunicazione “altra” per la creazione e la circolazione di scritti, foto e di video geneticamente sovversivi. La critica radicale per azzerare la società della merce; la decrescita, il primitivismo, la solidarietà per contrastare ogni forma di privatizzazione iniziando dall’acqua. Il piacere e la gioia di costruire una società dove tutti siano liberi ed uguali.
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lunedì 27 luglio 2020
L'attesa è in sé meravigliosa – André Breton
Al culmine della scoperta, dall'istante in cui, per i primi navigatori, fu in vista una nuova terra, a quello in cui approdarono; dall'istante in cui uno scienziato poté convincersi di avere assistito a un dato fenomeno fino a lui ignoto a quello in cui cominciò a valutare la portata della sua osservazione — abolito ogni senso della durata, nell'ebbrezza della chance — un sottilissimo pennello di fuoco lascia sprigionare o completa come nient'altro il senso della vita. È alla riproduzione di questo particolare stato dello spirito che il surrealismo ha sempre aspirato, disdegnando in ultima analisi la preda e l'ombra in favore di ciò che non è già più l'ombra e non è ancora la preda: l'ombra e la preda fuse in un unico lampo. Si tratta di non lasciare, dietro di sé, che i sentieri del desiderio si aggroviglino. Per scongiurare ciò, nell'arte, nelle scienze, non c'è risorsa migliore che questa volontà di applicazioni, di bottino, di raccolta. Al diavolo ogni prigionia, fosse anche in nome dell'utilità universale, fosse anche nei giardini di pietre preziose di Montezuma! Ancora oggi, se mi aspetto qualcosa è soltanto dalla mia disponibilità, da questa sete di vagare incontro a tutto; e sono certo che essa mi mantiene in comunicazione misteriosa con gli altri esseri disponibili, come se fossimo chiamati da un momento all'altro a riunirci. Mi piacerebbe che la mia vita non lasciasse dietro di sé altro mormorio che quello di una canzone di veglia, di una canzone per ingannare l'attesa. Indipendentemente da ciò che sopraggiunge, o non sopraggiunge, l'attesa è in sé meravigliosa.
L’EGOISMO – Max Stirner
L’egoismo cui fa riferimento Stirner, tuttavia, non va inteso nel senso più comune e basso del termine, ma proprio nel senso di una nuova consapevolezza individuale: la consapevolezza di essere padroni di se stessi e di poter disporre liberamente delle proprie facoltà e potenzialità, senza dover rendere conto a qualche presunto valore universale che abbia la pretesa di porsi come ideale verso cui gli individui dovrebbero aspirare. Inoltre, la consapevolezza dell’egoismo, che consiste poi nella consapevolezza della propria unicità, del proprio essere in-fondati, del non avere un’essenza umana da realizzare, una volta generalizzata, porterebbe secondo Stirner a una condizione che definisce di uguale disuguaglianza, dove ogni singolo individuo, oltre a essere consapevole della propria unicità, è consapevole anche dell’unicità di ogni altro singolo individuo, di modo che si arriverebbe a riconoscere a tutti gli individui un uguale valore assoluto. In questo senso, l’egoismo di Stirner si configura quale nuovo paradigma esistenziale alternativo a quello idealistico; un paradigma per il quale i rapporti tra individui non saranno più di tipo gerarchico, cioè rapporti obbligati di sfruttamento, ma saranno rapporti caratterizzati dal reciproco interesse, dalla libera scelta, rapporti diretti, cioè non mediati da alcuna presunta idea superiore, prima fra tutte l’idea di Dio e dello Stato. Solo in questo modo, secondo Stirner, potranno darsi le condizioni affinché ogni singolo individuo possa sviluppare le proprie potenzialità e si raggiungeranno i presupposti per una vita che non sia più di tipo rinunciatario, alle dipendenze di un qualsiasi ideale, ma che sia invece libera e gioiosa. Rispetto a quest’ultimo punto, anche se non mancano alcune indicazioni, Stirner non fornisce istruzioni concrete su come dovrà configurarsi tale nuovo modello di vita, e non lo fa proprio perché non si ha a che fare con un modello: il suo infatti non è un progetto politico né una nuova utopia, ma tematizza solamente un diverso modo di intendere le relazioni tra individui, vale a dire in modo appunto non più gerarchico ma orizzontale, di reciprocità. In questo senso il valore ancora del tutto attuale di quest’opera risiede nel fatto che la sua critica al sistema idealistico, cioè a un sistema di valori ritenuti fondamento dell’esistenza, può benissimo essere applicata a qualsivoglia ordinamento politico e sociale, con tutte le implicazioni che tale critica comporta. e inoltre, allo stesso tempo, quest’opera suggerisce la possibilità di un’alternativa, un’alternativa tutta da costruire, ma che a ogni modo può sempre fungere da orizzonte, in modo da orientare le nostre scelte.
giovedì 23 luglio 2020
La libertà delle parole
La libertà delle parole esiste se resta una libertà soltanto a patto che si restituisca alle parole quella vita inscindibile dal vissuto quotidiano, senza la quale una lingua si fossilizza e diventa stereotipo.
La libertà di dire tutto esiste soltanto se la si rivendica di continuo. Rinnega se stessa se si riduce a un consumo passivo di idee preconcette, la cui proliferazione caotica la soffoca.
La libertà delle parole ridà vita al linguaggio, al contrario dell’economia che ne fa una lingua morta, rinsecchita, composta di vocaboli intercambiabili, oggetto di scambio e non elemento soggettivo e intersoggettivo, nato dalla magia, dall’incanto, dalla poesia. Infatti è nella natura del linguaggio il radicarsi nella vita, in quanto esperienza fondamentale dell’esistenza quotidiana, che diversifica gli esseri e le cose, che li allontana e li avvicina ma, costituendo la loro sostanza comune, non li separa mai.
La libertà d’espressione non deve essere messa al servizio della difesa dell’umano: essa appartiene, in quanto libertà, alla libertà dell’umano. Non è soltanto ciò che desta la coscienza è il portavoce del suo risveglio: è il linguaggio restituito al vivente, quello che esprime il modo in cui viviamo il mondo e lo stile con cui intendiamo viverlo.
La libertà d’espressione smetterà di essere il surrogato della libertà d’azione quando la vitalità e l’efficienza che essa racchiude in sé scongiureranno e scoraggeranno le contraffazioni creando una consonanza tra la fraternità delle parole e la fraternità degli uomini.
Rompere con il vecchio sistema di sfruttamento che ci ha dominati finora significa restituire al linguaggio quella vocazione poetica dotata in origine, del potere di influire sulle circostanza e sul destino degli esseri.
La libertà di dire tutto esiste soltanto se la si rivendica di continuo. Rinnega se stessa se si riduce a un consumo passivo di idee preconcette, la cui proliferazione caotica la soffoca.
La libertà delle parole ridà vita al linguaggio, al contrario dell’economia che ne fa una lingua morta, rinsecchita, composta di vocaboli intercambiabili, oggetto di scambio e non elemento soggettivo e intersoggettivo, nato dalla magia, dall’incanto, dalla poesia. Infatti è nella natura del linguaggio il radicarsi nella vita, in quanto esperienza fondamentale dell’esistenza quotidiana, che diversifica gli esseri e le cose, che li allontana e li avvicina ma, costituendo la loro sostanza comune, non li separa mai.
La libertà d’espressione non deve essere messa al servizio della difesa dell’umano: essa appartiene, in quanto libertà, alla libertà dell’umano. Non è soltanto ciò che desta la coscienza è il portavoce del suo risveglio: è il linguaggio restituito al vivente, quello che esprime il modo in cui viviamo il mondo e lo stile con cui intendiamo viverlo.
La libertà d’espressione smetterà di essere il surrogato della libertà d’azione quando la vitalità e l’efficienza che essa racchiude in sé scongiureranno e scoraggeranno le contraffazioni creando una consonanza tra la fraternità delle parole e la fraternità degli uomini.
Rompere con il vecchio sistema di sfruttamento che ci ha dominati finora significa restituire al linguaggio quella vocazione poetica dotata in origine, del potere di influire sulle circostanza e sul destino degli esseri.
martedì 21 luglio 2020
Rosario Sànchez Mora, La Dinamitarda
Rosario Sànchez Mora è nata a Villarejo de Salvanés in Spagna nel 1919. Suo padre, Andrés Sánchez, ha un'officina dove ripara automobili, cucine e attrezzi agricoli mentre sua madre muore qualche anno prima dell’inizio della guerra civile. Rosario rimase a Villarejo de Salvanés fino all'età di 16 anni quando va a vivere a Madrid a casa di amici. Al suo arrivo a Madrid, diventa militante comunista e lavora come apprendista di sartoria in un circolo culturale della Gioventù Unificata Socialista. Sanchez diventa una delle prime donne a unirsi alle milizie repubblicane contro le forze nazionaliste guidate dal generale Francisco Franco. Rosario si unì ai repubblicani all'età di 17 anni il 17 luglio 1936, lo stesso giorno in cui l'esercito spagnolo si ribellò per la prima volta contro la Seconda Repubblica Spagnola. Il 18 luglio 1936, Madrid aveva interrotto la rivolta militare iniziata il giorno prima nel protettorato spagnolo del Marocco, che si era diffuso come petrolio in tutta la penisola. Migliaia di lavoratori avevano aggredito la Caserma della Montagna, il fulcro principale dei ribelli, e si stavano preparando a difendere la città dall'autoproclamata Armata Nazionale, che stava avanzando da nord per impadronirsi dei bacini di Lozoya.
Dozzine di camion partirono la mattina del 19 per le montagne piene di giovani che si erano offerti volontari per combattere, convinti che nel giro di pochi giorni sarebbero tornati a casa. Tra quelli che viaggiavano su uno di quei camion, sulla strada per Buitrago, c'era una ragazza di diciassette anni, Rosario Sánchez Mora. Si era arruolata il pomeriggio precedente, senza dire nulla alla sua famiglia, nel centro culturale Aída Lafuente, che la Gioventù Unificata Socialista (JSU) aveva in 10 San Bernardino Street, a pochi isolati da casa sua.
Dopo due settimane di combattimenti, in cui riuscirono a contenere i ribelli, la guerra in montagna smise di essere una battaglia aperta e divenne una battaglia di posizioni. Rosario fu poi assegnato alla sezione dei dinamitri, che era sotto il comando del capitano Emilio González. González, un minatore trivellatore di Sama de Langreo (Asturie) specializzato nella gestione di esplosivi e dinamite. Il gruppo aveva sede in una casa abbandonata tra Buitrago e Gascones, a circa cinque chilometri dalla linea di fuoco, dove avevano una piccola polveriera in cui immagazzinavano gli esplosivi e costruivano bombe rudimentali. I manufatti in questione erano lattine di latte condensato che venivano riciclate in bombe a mano. Il processo era semplice: la lattina con chiodi, viti e vetro, veniva riempita con la dinamite. Il barattolo veniva poi chiuso con il suo coperchio e legato con spago e stracci in modo che il contenuto non si rovesciasse. Per la face d’innesco si occupava personalmente il capitano González.
La mattina del 15 settembre, Rosario e i suoi compagni si esercitavano con bastoncini di dinamite, molto più facili da maneggiare rispetto alle bombe in scatola. Durante l’esercitazione la cartuccia esplose nella mano destra di Rosario, riducendola in poltiglia.Gravemente ferita, è stata operata all'ospedale della Croce Rossa a La Cabrera, dove sono riusciti a salvarle la vita.
Rosario ritornò al fronte fu ricevuta come eroina e assegnata al Comitato di Agitazione e Propaganda.
"La mia è stata una vita dura e coraggiosa, perché se non la avessi affrontata non saprei cosa sarebbe successo a me", dice Rosario settant'anni dopo quella mattina di luglio del 1936. Fino alla sua morte il 17 aprile 2008, a Madrid all’età di 88 anni, Rosario ha continuato ad essere una donna ribelle con un ricordo prodigioso, che si sforza di conservare i suoi ricordi scrivendoli in enormi quaderni ad anelli. "Lottare per la libertà", dice, "ne è valsa la pena."
Dozzine di camion partirono la mattina del 19 per le montagne piene di giovani che si erano offerti volontari per combattere, convinti che nel giro di pochi giorni sarebbero tornati a casa. Tra quelli che viaggiavano su uno di quei camion, sulla strada per Buitrago, c'era una ragazza di diciassette anni, Rosario Sánchez Mora. Si era arruolata il pomeriggio precedente, senza dire nulla alla sua famiglia, nel centro culturale Aída Lafuente, che la Gioventù Unificata Socialista (JSU) aveva in 10 San Bernardino Street, a pochi isolati da casa sua.
Dopo due settimane di combattimenti, in cui riuscirono a contenere i ribelli, la guerra in montagna smise di essere una battaglia aperta e divenne una battaglia di posizioni. Rosario fu poi assegnato alla sezione dei dinamitri, che era sotto il comando del capitano Emilio González. González, un minatore trivellatore di Sama de Langreo (Asturie) specializzato nella gestione di esplosivi e dinamite. Il gruppo aveva sede in una casa abbandonata tra Buitrago e Gascones, a circa cinque chilometri dalla linea di fuoco, dove avevano una piccola polveriera in cui immagazzinavano gli esplosivi e costruivano bombe rudimentali. I manufatti in questione erano lattine di latte condensato che venivano riciclate in bombe a mano. Il processo era semplice: la lattina con chiodi, viti e vetro, veniva riempita con la dinamite. Il barattolo veniva poi chiuso con il suo coperchio e legato con spago e stracci in modo che il contenuto non si rovesciasse. Per la face d’innesco si occupava personalmente il capitano González.
La mattina del 15 settembre, Rosario e i suoi compagni si esercitavano con bastoncini di dinamite, molto più facili da maneggiare rispetto alle bombe in scatola. Durante l’esercitazione la cartuccia esplose nella mano destra di Rosario, riducendola in poltiglia.Gravemente ferita, è stata operata all'ospedale della Croce Rossa a La Cabrera, dove sono riusciti a salvarle la vita.
Rosario ritornò al fronte fu ricevuta come eroina e assegnata al Comitato di Agitazione e Propaganda.
"La mia è stata una vita dura e coraggiosa, perché se non la avessi affrontata non saprei cosa sarebbe successo a me", dice Rosario settant'anni dopo quella mattina di luglio del 1936. Fino alla sua morte il 17 aprile 2008, a Madrid all’età di 88 anni, Rosario ha continuato ad essere una donna ribelle con un ricordo prodigioso, che si sforza di conservare i suoi ricordi scrivendoli in enormi quaderni ad anelli. "Lottare per la libertà", dice, "ne è valsa la pena."
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lunedì 20 luglio 2020
LA NOTTE – Jaime Saenz
Che cos’è la notte? – ci si chiede oggi e sempre.
La notte, una rivelazione non rivelata.
Forse un morto possente e tenace,
forse un corpo perduto nella stessa notte.
In realtà, una profondità, uno spazio inimmaginabile.
Una entità tenebrosa e sottile, forse somigliante
al corpo che ti abita,
e che senza dubbio occulta molte chiavi della notte.
Quando penso al mistero della notte, immagino
il mistero del tuo corpo,
che è solo un modo di essere la notte;
io so davvero che il corpo che ti abita non è altro
che l’oscurità del tuo corpo;
e questa oscurità si diffonde sotto il segno della notte.
Nelle infinite concavità del tuo corpo, esistono
infiniti regni d’oscurità;
ed è qualcosa che chiama alla meditazione.
Questo corpo, chiuso, segreto e proibito;
questo corpo straniero e temibile,
e mai presagito né presentito.
Ed è come un bagliore, o come un’ombra:
solo si lascia sentire da lontano, nel recondito,
e con una solitudine eccessiva, che non ti appartiene.
E solo si lascia sentire con un palpito, con una temperatura,
e con un dolore che non ti appartiene.
Se qualcosa mi sorprende, è l’immagine che mi immagina,
nella distanza;
si sente un respiro dentro di me.
Il corpo respira dentro di me.
L’oscurità mi preoccupa – la notte del corpo mi preoccupa.
Il corpo della notte e la morte del corpo,
sono cose che mi preoccupano.
E io mi chiedo:
Che cos’è il corpo? Io non so se ti sei chiesto
una volta che cos’è il tuo corpo.
È un frangente grave e difficile.
Io mi sono avvicinato una volta al mio corpo;
e avendo capito che non lo avevo mai visto,
anche se lo portavo addosso,
gli ho chiesto chi era;
e una voce, nel silenzio, mi ha detto:
Io sono il corpo che ti abita, e sono qui, nell’oscurità, e ti
dolgo, e ti vivo, e ti muoio.
Ma non sono il tuo corpo. Io sono la notte.
( Poeta e narratore boliviano (1921 – 1986), è oggi considerato lo scrittore più importante del paese del XX secolo. Da subito costruì la propria leggenda di scrittore maledetto sfidando, con la sua dedizione all’alcol, le convenzioni della classe media alla quale apparteneva. Due esperienze quasi mortali di delirium tremens, agli inizi degli anni Cinquanta, lo portarono ad abbandonare quasi del tutto l’alcol e a dedicarsi alla scrittura della sua opera, segnata da una ricerca costante di percorsi di comprensione dell’universo che non passassero dalla ragione.
Fondamentale il rifiuto, nel suo modo di vivere e nel contenuto della sua opera, per tutti i valori accettati tradizionalmente dalla società del tempo. Saenz proveniva da un ambiente molto conservatore, la sua fu una presa di posizione così radicale che per la maggior parte della gente fu difficile capire che dietro ai suoi gesti provocatori ci fosse un poeta.)
La notte, una rivelazione non rivelata.
Forse un morto possente e tenace,
forse un corpo perduto nella stessa notte.
In realtà, una profondità, uno spazio inimmaginabile.
Una entità tenebrosa e sottile, forse somigliante
al corpo che ti abita,
e che senza dubbio occulta molte chiavi della notte.
Quando penso al mistero della notte, immagino
il mistero del tuo corpo,
che è solo un modo di essere la notte;
io so davvero che il corpo che ti abita non è altro
che l’oscurità del tuo corpo;
e questa oscurità si diffonde sotto il segno della notte.
Nelle infinite concavità del tuo corpo, esistono
infiniti regni d’oscurità;
ed è qualcosa che chiama alla meditazione.
Questo corpo, chiuso, segreto e proibito;
questo corpo straniero e temibile,
e mai presagito né presentito.
Ed è come un bagliore, o come un’ombra:
solo si lascia sentire da lontano, nel recondito,
e con una solitudine eccessiva, che non ti appartiene.
E solo si lascia sentire con un palpito, con una temperatura,
e con un dolore che non ti appartiene.
Se qualcosa mi sorprende, è l’immagine che mi immagina,
nella distanza;
si sente un respiro dentro di me.
Il corpo respira dentro di me.
L’oscurità mi preoccupa – la notte del corpo mi preoccupa.
Il corpo della notte e la morte del corpo,
sono cose che mi preoccupano.
E io mi chiedo:
Che cos’è il corpo? Io non so se ti sei chiesto
una volta che cos’è il tuo corpo.
È un frangente grave e difficile.
Io mi sono avvicinato una volta al mio corpo;
e avendo capito che non lo avevo mai visto,
anche se lo portavo addosso,
gli ho chiesto chi era;
e una voce, nel silenzio, mi ha detto:
Io sono il corpo che ti abita, e sono qui, nell’oscurità, e ti
dolgo, e ti vivo, e ti muoio.
Ma non sono il tuo corpo. Io sono la notte.
( Poeta e narratore boliviano (1921 – 1986), è oggi considerato lo scrittore più importante del paese del XX secolo. Da subito costruì la propria leggenda di scrittore maledetto sfidando, con la sua dedizione all’alcol, le convenzioni della classe media alla quale apparteneva. Due esperienze quasi mortali di delirium tremens, agli inizi degli anni Cinquanta, lo portarono ad abbandonare quasi del tutto l’alcol e a dedicarsi alla scrittura della sua opera, segnata da una ricerca costante di percorsi di comprensione dell’universo che non passassero dalla ragione.
Fondamentale il rifiuto, nel suo modo di vivere e nel contenuto della sua opera, per tutti i valori accettati tradizionalmente dalla società del tempo. Saenz proveniva da un ambiente molto conservatore, la sua fu una presa di posizione così radicale che per la maggior parte della gente fu difficile capire che dietro ai suoi gesti provocatori ci fosse un poeta.)
giovedì 16 luglio 2020
La chiave di svolta è in ciascuno di noi
La chiave di svolta è in ciascuno di noi. Non ci sono istruzioni per l'uso. Quando avrete scelto di non riferirvi che a voi stessi, riderete del riferimento a un nome — il nostro, il vostro — a un giudizio, a una categoria, cesserete di imparentarvi a quella gente a cui il rimpianto astioso per non aver partecipato a un movimento della storia impedisce ancora di inventarsi una vita per se stessi.
Dipende solo da noi diventare gli inventori della nostra vita. Quanta energia gettata in questa vera fatica che è vivere in virtù degli altri, quando sarebbe sufficiente applicarla, per amore di sé, al compimento dell'essere incompiuto, del bambino chiuso dentro di noi.
Il nostro godimento implica così la fine del lavoro, della costrizione, dello scambio, dell'intellettualità, del senso di colpa, della volontà di potenza. Non vediamo alcuna giustificazione — se non economica — alla sofferenza, alla separazione, agli imperativi, ai rimproveri, al potere. Nella nostra lotta per l'autonomia, c'è la lotta dei proletari contro la loro proletarizzazione crescente, la lotta degli individui contro la dittatura onnipresente della merce. L'irruzione della vita ha aperto la breccia nella vostra civilizzazione di morte.
La buona terra sa vedere in tutte le cose, in tutti gli eventi e in tutti gli uomini una semenza, una pioggia, un raggio di sole benvenuti. Si arricchisce di quello che prende come di quello che offre..
Dipende solo da noi diventare gli inventori della nostra vita. Quanta energia gettata in questa vera fatica che è vivere in virtù degli altri, quando sarebbe sufficiente applicarla, per amore di sé, al compimento dell'essere incompiuto, del bambino chiuso dentro di noi.
Il nostro godimento implica così la fine del lavoro, della costrizione, dello scambio, dell'intellettualità, del senso di colpa, della volontà di potenza. Non vediamo alcuna giustificazione — se non economica — alla sofferenza, alla separazione, agli imperativi, ai rimproveri, al potere. Nella nostra lotta per l'autonomia, c'è la lotta dei proletari contro la loro proletarizzazione crescente, la lotta degli individui contro la dittatura onnipresente della merce. L'irruzione della vita ha aperto la breccia nella vostra civilizzazione di morte.
La buona terra sa vedere in tutte le cose, in tutti gli eventi e in tutti gli uomini una semenza, una pioggia, un raggio di sole benvenuti. Si arricchisce di quello che prende come di quello che offre..
ASHES ARE BURNING - Renaissance
strade che portano dappertutto,
vieni con me adesso
e mostrami quanto ti importa.
Segui le braci morenti,
attraversa i sentieri che essi fanno
alito del passato, le terre di ieri.
Colori che sbiadiscono luce stellare
argentea la via da trovare,
camminano le ombre, li nella nostra mente.
Cambiando l'ordine lentamente,
lasciando la nebbia del tempo,
le dita stanno reggendo frammenti di tempo.
Schiarisci la tua mente,
forse troverai che il passato sta ancora girando
cerchi lontani, echi di ieri, ceneri ardenti,
immagina i fuochi che bruciano,
brillano sotto e sopra,
non ricorderai i tuoi peccati
e troverai che c'è amore.
Le ceneri bruciano splendenti
il fumo si vede da lontano,
quindi adesso vedi quanto lontano
le ceneri stanno bruciando la via.
(Dallo scioglimento degli Yardbirds nacquero due gruppi: i Led Zeppelin dediti al miglior hard rock e i Renaissance, il cui fine era quello di creare una perfetta fusione tra il rock e la musica classica)
L’uomo libero
L’uomo libero è colui che esprime la propria sovranità di fronte alla legge, agli interessi, ai dettami dei valori dominanti, non ha partiti, né chiese ai quali appartenere, non ha terre né cieli da conquistare, non ha né individui né popoli da sottomettere.
L’uomo libero crede nell’amore di sé e per gli altri, ma soprattutto fa tutto ciò che il suo dissidio gli suggerisce. I percorsi in utopia dell’uomo libero sono un invito alla resistenza e una via aperta alla clandestinità, le sue armi non stanno nelle caserme, nelle redazioni dei giornali, nelle sedi dei partiti, le armi dell’uomo libero sono nella sua testa, nelle sue mani, nell’amore per tutto quanto è estremo e trasognante.
L’uomo ibero è ribelle in ogni luogo, libero di cambiare il mondo e di introdurvi i venti irrequieti della diversità che annunciano il nuovo.
La disobbedienza civile e la ribellione dei poveri, degli umiliati, degli offesi, sono il percorso accidentato verso una società più giusta e più umana.
La radicalità della ribellione invece si fonda sulla richiesta di comunità, sulla fine dei falsi idoli, sulla caduta delle dottrine del consenso sociale.
La ribellione afferma un diritto, il rifiuto dell’obbligazione politica e della genuflessione alla potenza delle istituzioni. I dogmi della società sono specchi dell’obbedienza che rientrano nel campo delle necessità private, mentre la visione e l’azione del ribelle rientra nel campo della libertà pubblica. La vera libertà è quella che ci costruiamo con le proprie mani e con le proprie idee. La disobbedienza del ribelle non risente dell’obbligo morale di rispettare la legge né le giustificazioni economiche, politiche degli indici della Borsa lo interessano, perché non c’è nessun fondamento civile che giustifichi la cattività nella quale è tenuta dai paesi ricchi una grande parte di umanità.
Nell’uomo nuovo cova il ribelle, l’uomo planetario, l’uomo dall’animo nobile che grida fuori dalle masse silenziose il proprio amore per la bellezza, la giustizia, la libertà di tutti gli uomini. Il ribelle non perdona né archivia, strappa ciò che è stato fatto, ed è capace di dar luogo a un nuovo inizio proprio là dove tutto sembrava concluso.
L’uomo libero crede nell’amore di sé e per gli altri, ma soprattutto fa tutto ciò che il suo dissidio gli suggerisce. I percorsi in utopia dell’uomo libero sono un invito alla resistenza e una via aperta alla clandestinità, le sue armi non stanno nelle caserme, nelle redazioni dei giornali, nelle sedi dei partiti, le armi dell’uomo libero sono nella sua testa, nelle sue mani, nell’amore per tutto quanto è estremo e trasognante.
L’uomo ibero è ribelle in ogni luogo, libero di cambiare il mondo e di introdurvi i venti irrequieti della diversità che annunciano il nuovo.
La disobbedienza civile e la ribellione dei poveri, degli umiliati, degli offesi, sono il percorso accidentato verso una società più giusta e più umana.
La radicalità della ribellione invece si fonda sulla richiesta di comunità, sulla fine dei falsi idoli, sulla caduta delle dottrine del consenso sociale.
La ribellione afferma un diritto, il rifiuto dell’obbligazione politica e della genuflessione alla potenza delle istituzioni. I dogmi della società sono specchi dell’obbedienza che rientrano nel campo delle necessità private, mentre la visione e l’azione del ribelle rientra nel campo della libertà pubblica. La vera libertà è quella che ci costruiamo con le proprie mani e con le proprie idee. La disobbedienza del ribelle non risente dell’obbligo morale di rispettare la legge né le giustificazioni economiche, politiche degli indici della Borsa lo interessano, perché non c’è nessun fondamento civile che giustifichi la cattività nella quale è tenuta dai paesi ricchi una grande parte di umanità.
Nell’uomo nuovo cova il ribelle, l’uomo planetario, l’uomo dall’animo nobile che grida fuori dalle masse silenziose il proprio amore per la bellezza, la giustizia, la libertà di tutti gli uomini. Il ribelle non perdona né archivia, strappa ciò che è stato fatto, ed è capace di dar luogo a un nuovo inizio proprio là dove tutto sembrava concluso.
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giovedì 9 luglio 2020
L’intelligenza collettiva e il copyright
L’intelligenza collettiva non è semplicemente un modo di lavoro collettivo, è anche una modalità operativa di conoscenza del mondo, creata dall’umanità nel suo procedere storico con un'enormità di artefatti cognitivi, disseminati negli oggetti, nei testi, nei comportamenti e nella lingua in generale. In pratica il processo del nostro pensiero non si avvale esclusivamente degli input che emergono dall'interno, ma si appoggia a una parte della mente disseminata negli artefatti cognitivi di cui il mondo abbonda e nelle molteplici culture che si sono susseguite, mescolate e rielaborate. Questo vuol dire che non possiamo fare a meno dell'intelligenza collettiva per elaborare pensieri sensati, quindi qualsiasi cosa prodotta da ognuno di noi è contemporaneamente anche il frutto dello sforzo del resto della collettività nello spazio e nel tempo.
È difficile quindi pensare di poter assegnare ad alcuni il diritto di possedere una proprietà intellettuale esclusiva su qualcosa.
Il COPYRIGHT, la «riserva del diritto d'autore sulla riproduzione di un'opera» (libro, disco, programma che sia), è un chiaro esempio di come sia il denaro a scandire la nostra vita, a regolarla e ad orientarla. Quando andiamo in libreria e acquistiamo un libro, sborsando una somma più o meno elevata, ne usciamo solitamente soddisfatti di poter godere un bene che riteniamo di aver liberamente scelto. Ma non è proprio così. La nostra scelta dipende dalle nostre possibilità economiche, dalla selezione di libri che qualcuno ha messo "a nostra disposizione"; qualcuno che a sua volta ha dovuto scegliere fra i libri che un altro ancora ha scelto per lui. Dunque il lettore è condizionato dalle scelte del libraio, che è condizionato dalle scelte del distributore, che è condizionato dalle scelte dell'editore.
Il risultato di questo iter non ha nulla a che vedere con il nostro "sapere e la nostra "cultura", ma solo col conto in banca dei tanti bottegai. In tutto ciò il copyright svolge un ruolo importante, determinando le scelte di un editore, il prezzo di un libro, la sua stessa presenza in libreria, fino alla nostra possibilità di acquisto.
Come ogni proprietà. esso è un furto
È difficile quindi pensare di poter assegnare ad alcuni il diritto di possedere una proprietà intellettuale esclusiva su qualcosa.
Il COPYRIGHT, la «riserva del diritto d'autore sulla riproduzione di un'opera» (libro, disco, programma che sia), è un chiaro esempio di come sia il denaro a scandire la nostra vita, a regolarla e ad orientarla. Quando andiamo in libreria e acquistiamo un libro, sborsando una somma più o meno elevata, ne usciamo solitamente soddisfatti di poter godere un bene che riteniamo di aver liberamente scelto. Ma non è proprio così. La nostra scelta dipende dalle nostre possibilità economiche, dalla selezione di libri che qualcuno ha messo "a nostra disposizione"; qualcuno che a sua volta ha dovuto scegliere fra i libri che un altro ancora ha scelto per lui. Dunque il lettore è condizionato dalle scelte del libraio, che è condizionato dalle scelte del distributore, che è condizionato dalle scelte dell'editore.
Il risultato di questo iter non ha nulla a che vedere con il nostro "sapere e la nostra "cultura", ma solo col conto in banca dei tanti bottegai. In tutto ciò il copyright svolge un ruolo importante, determinando le scelte di un editore, il prezzo di un libro, la sua stessa presenza in libreria, fino alla nostra possibilità di acquisto.
Come ogni proprietà. esso è un furto
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IL PRIMO SPARO – Chinua Achebe
Quell’unica fucilata anonima nel buio,
che arriva rapida e tesa
in un sobborgo nervoso
all’irrompere della stagione dei tuoni
fermerà comunque il suo volo e andrà a conficcarsi
più fermamente dei grandi rumori
avanti, nella fronte della memoria.
Albert Chinualumogu Achebe, scrittore e saggista nigeriano di lingua inglese (Ogidi, Onitsha, 1930 - Boston 2013). Fautore di una riscoperta della identità culturale africana, ha evidenziato i limiti e i pericoli di un'affrettata "civilizzazione". Centrale nella sua narrativa, ricca di contaminazioni linguistiche e di umori satirici, è la figura dell'intellettuale africano nei suoi difficili rapporti con il potere.
Considerato il padre della letteratura africana moderna in lingua inglese, fu attivo testimone della sanguinosa balcanizzazione dell’Africa nell’esperienza della secessione del Biafra (1967-1970), dove gli Igbo, di cui lo stesso Achebe faceva parte, erano opposti al resto del Paese per ottenere l’indipendenza del sud-est della nazione e far nascere un nuovo stato, la Repubblica del Biafra. Nella guerra civile che seguì si consumò uno dei più grandi genocidi del `900 che costò la vita a più di un milione di Igbo.
che arriva rapida e tesa
in un sobborgo nervoso
all’irrompere della stagione dei tuoni
fermerà comunque il suo volo e andrà a conficcarsi
più fermamente dei grandi rumori
avanti, nella fronte della memoria.
Considerato il padre della letteratura africana moderna in lingua inglese, fu attivo testimone della sanguinosa balcanizzazione dell’Africa nell’esperienza della secessione del Biafra (1967-1970), dove gli Igbo, di cui lo stesso Achebe faceva parte, erano opposti al resto del Paese per ottenere l’indipendenza del sud-est della nazione e far nascere un nuovo stato, la Repubblica del Biafra. Nella guerra civile che seguì si consumò uno dei più grandi genocidi del `900 che costò la vita a più di un milione di Igbo.
La ricostruzione dell’Internazionale in Italia nel maggio 1880
Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, la componente italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIL) viveva una fase di disgregazione, causata dalla dura ondata repressiva seguita al fallimento del moto nel Matese del 1877, ma anche dall’emergere di ipotesi diverse della prospettiva socialista. In un frangente tanto delicato, Francesco Saverio Merlino, nell’assenza di Carlo Cafiero ed Errico Malatesta in quel periodo all’estero, si prodigò nel tentativo di ricostruire l’Internazionale in Italia, trovando in Roma il luogo dove misurare tale possibilità. L’ambiente capitolino seguiva anch’esso la crisi più generale dell’AIL, sebbene conservasse motivi di radicamento tra alcuni settori operai e si avvalesse dei legami da tempo intessuti con esponenti di primo piano, quali Cafiero, Malatesta e Osvaldo Gnocchi Viani. Nella loro maggioranza, gli internazionalisti romani protendevano per la proposta anarchica, pur con alcuni distinguo che ne caratterizzavano il forte tratto operaista, mentre taluni si mostravano disponibili alla lotta armata, quale possibile reazione alle condizioni dettate dalla feroce repressione statale.
Una relazione di prossimità era stata stabilita tra l’area capitolina e quella partenopea, intenzionate entrambe a licenziare una pubblicazione comune, “Il Giorno del Giudizio”. Il 13 maggio 1880, il questore di Roma riferiva in via riservata al prefetto che gli internazionalisti romani si erano costituti in Sezione dell’AIL, approvando una carta di Principii e un Organamentostatutario, preceduti da una Circolare ai compagni italiani, di cui inviava copia. Scritti da Merlino, i documenti segnalavano l’adesione “comunista-anarchica” della Sezione, che definiva così un suo orizzonte dottrinario distinto dalle altre correnti socialiste.
L’aspetto programmatico era sintetizzato in nove articoli:
1. Gli uomini essendo naturalmente uguali, i privilegi di razza, di nascita, di sesso devono essere aboliti.
2. Ogni uomo come parte integrante della Società ha diritto a vivere e a soddisfare i suoi svariati bisogni.
3. Tutti gli uomini capaci di lavorare sono lavoratori e concorrono con l’opera loro, ciascuno secondo le proprie forze, al benessere comune di tutti i lavoratori.
4. La terra con tutto ciò che su di essa esiste è il patrimonio comune di tutti i lavoratori.
5. Il lavoro si pratica in associazioni nelle quali liberamente si uniscono i lavoratori.
6. Le associazioni operaie si formano, secondo i bisogni, nei vari luoghi e nelle diverse specie di lavori, e prendono possesso delle materie prime e degli strumenti di lavoro che loro occorrono.
7. Esse si federano fra loro per provvedere, di comune accordo, agli interessi comuni.
8. Come interessi comuni possono in generale considerarsi lo scambio e la distribuzione dei prodotti, l’educazione e l’istruzione, le comunicazioni personali e dei pensieri, l’igiene, l’assistenza agli infermi, ai fanciulli, ai vecchi, e agli incapaci di lavorare, e a tutto ciò che si riferisce all’incremento delle arti, delle industrie, del sapere e della moralità.
9. Tutto ciò che nel presente ordinamento sociale vi ha di contrario ai presenti principi deve essere distrutto.
Dal punto di vista organizzativo, nella dura fase di repressione poliziesca, la Sezione mantenne criteri di clandestinità. La direzione era garantita da una Commissione esecutiva con compiti limitati alla corrispondenza e alla cura di aspetti associativi e finanziari; il mandato era a “tempo determinato” e i suoi membri “sempre revocabili”.
La Circolare ai compagni italiani era invece un appello indirizzato alla ricostruzione dell’Internazionale: i “socialisti romani hanno pensato di gettare la prima pietra in Italia della ricostruzione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori”. I “socialisti” erano dunque chiamati all’azione, non solo nella “propaganda teorica ma più specialmente alla riunione delle forze necessarie per combattere e distruggere il presente ordinamento sociale”, superando definitivamente le “divergenze d’opinione sorte nel seno del partito”. Erano proposti i temi caratterizzanti dell’internazionalismo antiautoritario, interamente volti all’azione immediata e lontani dalla dimensione politica, considerata “un errore fatale, anzi una malaugurata diserzione”.
In questo primo incontro tra Merlino e gli anarchici romani maturò un passaggio di rottura con la fazione legalitaria del socialismo che, di lì a breve, si sarebbe consumata al congresso di Chiasso (5-6 dicembre 1880), con la pressoché definitiva separazione tra le diverse correnti sorte in seno all’Internazionale in Italia.
Una relazione di prossimità era stata stabilita tra l’area capitolina e quella partenopea, intenzionate entrambe a licenziare una pubblicazione comune, “Il Giorno del Giudizio”. Il 13 maggio 1880, il questore di Roma riferiva in via riservata al prefetto che gli internazionalisti romani si erano costituti in Sezione dell’AIL, approvando una carta di Principii e un Organamentostatutario, preceduti da una Circolare ai compagni italiani, di cui inviava copia. Scritti da Merlino, i documenti segnalavano l’adesione “comunista-anarchica” della Sezione, che definiva così un suo orizzonte dottrinario distinto dalle altre correnti socialiste.
L’aspetto programmatico era sintetizzato in nove articoli:
1. Gli uomini essendo naturalmente uguali, i privilegi di razza, di nascita, di sesso devono essere aboliti.
2. Ogni uomo come parte integrante della Società ha diritto a vivere e a soddisfare i suoi svariati bisogni.
3. Tutti gli uomini capaci di lavorare sono lavoratori e concorrono con l’opera loro, ciascuno secondo le proprie forze, al benessere comune di tutti i lavoratori.
4. La terra con tutto ciò che su di essa esiste è il patrimonio comune di tutti i lavoratori.
5. Il lavoro si pratica in associazioni nelle quali liberamente si uniscono i lavoratori.
6. Le associazioni operaie si formano, secondo i bisogni, nei vari luoghi e nelle diverse specie di lavori, e prendono possesso delle materie prime e degli strumenti di lavoro che loro occorrono.
7. Esse si federano fra loro per provvedere, di comune accordo, agli interessi comuni.
8. Come interessi comuni possono in generale considerarsi lo scambio e la distribuzione dei prodotti, l’educazione e l’istruzione, le comunicazioni personali e dei pensieri, l’igiene, l’assistenza agli infermi, ai fanciulli, ai vecchi, e agli incapaci di lavorare, e a tutto ciò che si riferisce all’incremento delle arti, delle industrie, del sapere e della moralità.
9. Tutto ciò che nel presente ordinamento sociale vi ha di contrario ai presenti principi deve essere distrutto.
Dal punto di vista organizzativo, nella dura fase di repressione poliziesca, la Sezione mantenne criteri di clandestinità. La direzione era garantita da una Commissione esecutiva con compiti limitati alla corrispondenza e alla cura di aspetti associativi e finanziari; il mandato era a “tempo determinato” e i suoi membri “sempre revocabili”.
La Circolare ai compagni italiani era invece un appello indirizzato alla ricostruzione dell’Internazionale: i “socialisti romani hanno pensato di gettare la prima pietra in Italia della ricostruzione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori”. I “socialisti” erano dunque chiamati all’azione, non solo nella “propaganda teorica ma più specialmente alla riunione delle forze necessarie per combattere e distruggere il presente ordinamento sociale”, superando definitivamente le “divergenze d’opinione sorte nel seno del partito”. Erano proposti i temi caratterizzanti dell’internazionalismo antiautoritario, interamente volti all’azione immediata e lontani dalla dimensione politica, considerata “un errore fatale, anzi una malaugurata diserzione”.
In questo primo incontro tra Merlino e gli anarchici romani maturò un passaggio di rottura con la fazione legalitaria del socialismo che, di lì a breve, si sarebbe consumata al congresso di Chiasso (5-6 dicembre 1880), con la pressoché definitiva separazione tra le diverse correnti sorte in seno all’Internazionale in Italia.
giovedì 2 luglio 2020
Non basta togliere il potere a chi ce l'ha
La società come prigione di cui siamo anche carcerieri è un fatto.
Questo potere di coercizione e di cancellazione del dissenso si è instaurato ben prima di elargire “graziosamente” i diritti civili come il voto, che, inscenando la democrazia rappresentativa, garantirebbe la sovranità popolare.
Come liberarci da questa falsificazione e garantirci che non si ripresenti per l'ennesima volta in nuove forme?
Non esistono sistemi che garantiscano la libertà di tutti se si propongono di cominciare col toglierla a qualcuno....
Non basta togliere il potere a chi ce l'ha occorre che ciascuno si munisca di un proprio potere di pensare e di agire costituendosi come parte di una collettività di individui pensanti, federati per essere ciascuno il testimone e il custode della libertà di tutti. Significa ribaltare il concetto stesso di legge e di sovranità, non più un modo di costringere gli altri, ma una responsabilità di realizzare le proprie idee trovando anche le energie per attuarle e incoraggiando altri ad unirsi.
Dobbiamo sostituire il circolo vizioso del dominio e della sanzione violenta con il circolo virtuoso dell'esempio e della parola libera.
La società non sia più la prigione a cui siamo tutti condannati ma un luogo felice da edificare con le forze e le idee di tutti ben armonizzate tra loro.
La libertà di tutti comincia dallo scambio gratuito di diverse sensibilità, diverse opzioni individuali e sociali. Ognuno deve poter prendere dagli altri quel che sembra migliorare il senso della vita, lasciando quel che ne complica le realizzazioni.
L’umanità dell'essere umano è infatti il dono che ognuno fa a se stesso per il piacere di tutti. Il dono che include tutti gli altri.
Come direbbe qualcuno: l'umanità soggettiva si nutre di un sogno che deve soltanto arrivare alla coscienza per diventare realtà.
La rivoluzione sociale bussa dunque alla nostra porta nel nome di una felicità per tutti e non in quello di un qualunque risentimento corporativo di ruolo o di genere.
Questo potere di coercizione e di cancellazione del dissenso si è instaurato ben prima di elargire “graziosamente” i diritti civili come il voto, che, inscenando la democrazia rappresentativa, garantirebbe la sovranità popolare.
Come liberarci da questa falsificazione e garantirci che non si ripresenti per l'ennesima volta in nuove forme?
Non esistono sistemi che garantiscano la libertà di tutti se si propongono di cominciare col toglierla a qualcuno....
Non basta togliere il potere a chi ce l'ha occorre che ciascuno si munisca di un proprio potere di pensare e di agire costituendosi come parte di una collettività di individui pensanti, federati per essere ciascuno il testimone e il custode della libertà di tutti. Significa ribaltare il concetto stesso di legge e di sovranità, non più un modo di costringere gli altri, ma una responsabilità di realizzare le proprie idee trovando anche le energie per attuarle e incoraggiando altri ad unirsi.
Dobbiamo sostituire il circolo vizioso del dominio e della sanzione violenta con il circolo virtuoso dell'esempio e della parola libera.
La società non sia più la prigione a cui siamo tutti condannati ma un luogo felice da edificare con le forze e le idee di tutti ben armonizzate tra loro.
La libertà di tutti comincia dallo scambio gratuito di diverse sensibilità, diverse opzioni individuali e sociali. Ognuno deve poter prendere dagli altri quel che sembra migliorare il senso della vita, lasciando quel che ne complica le realizzazioni.
L’umanità dell'essere umano è infatti il dono che ognuno fa a se stesso per il piacere di tutti. Il dono che include tutti gli altri.
Come direbbe qualcuno: l'umanità soggettiva si nutre di un sogno che deve soltanto arrivare alla coscienza per diventare realtà.
La rivoluzione sociale bussa dunque alla nostra porta nel nome di una felicità per tutti e non in quello di un qualunque risentimento corporativo di ruolo o di genere.
mercoledì 1 luglio 2020
MIGRANTI! ALIENS!
Nel 1919, a marzo trentanove 'indesiderati' furono portati a Ellis Island per completare le procedure di espulsione, tra loro Andrea Ciofalo del Gruppo Bresci di New York, a suo tempo tra gli espatriati in Messico. II Dipartimento del Lavoro prevedeva circa settemila deportazioni e la stampa riportava le reazioni soddisfatte delle autorità: "Gli Stati Uniti stanno per essere ripuliti dalla presenza di stranieri anarchici e facinorosi."
Il primo a partire fu Pietro Marucco, un minatore del Gruppo Demolizione di Latobe, Pennsylvania, imbarcato sul transatlantico Duca degli Abruzzi. Durante la traversata, però, Marucco mori in circostanze non chiarite e fu sepolto in mare. Questo fatto fece crescere ulteriormente la tensione fra gli anarchici: esisteva forse
un inconfessabile accordo tra i due governi per l’eliminazione dei sovversivi prima del loro arrivo in Italia?
In quei giorni un comunicato dal titolo Go-Headit! (Avanti!) firmato "The American Anarchists", fu diffuso in tutto l'Est del paese:
I vecchi Fossili che governano gli Stati Uniti vedono rosso!
Subodorando la loro distruzione hanno tentato di tenere sotto controllo la tempesta promulgando la legge sulla Deportazione
per tutti i rivoluzionari stranieri.
Noi, gli Anarchici Americani, non protestiamo, perché è Inutile sprecare energie con le persone deboli di mente guidate da Sua Maestà Fonografo Wilson.
Non pensiate che solo gli stranieri sono anarchici, siamo in
gran numero anche qui.
La deportazione non impedirà alla tempesta di raggiungere le nostre coste. La tempesta é qui e molto presto vi farà saltare e annichilire nel sangue e nel fuoco.
Non avete mostrato pietà per noi. Non ne avrete da noi.
Deportateci! Vi faremo saltare in aria!
Deportateci tutti o liberateci tutti!
Fra le righe del documento si leggeva un appello alla classe operaia americana, l'eterna assente nella lotta di resistenza portata avanti dagli aliens e, per una volta, gli americani risposero bloccando per cinque giorni l'intera città di Seattle con uno sciopero generale.
Il primo a partire fu Pietro Marucco, un minatore del Gruppo Demolizione di Latobe, Pennsylvania, imbarcato sul transatlantico Duca degli Abruzzi. Durante la traversata, però, Marucco mori in circostanze non chiarite e fu sepolto in mare. Questo fatto fece crescere ulteriormente la tensione fra gli anarchici: esisteva forse
un inconfessabile accordo tra i due governi per l’eliminazione dei sovversivi prima del loro arrivo in Italia?
In quei giorni un comunicato dal titolo Go-Headit! (Avanti!) firmato "The American Anarchists", fu diffuso in tutto l'Est del paese:
I vecchi Fossili che governano gli Stati Uniti vedono rosso!
Subodorando la loro distruzione hanno tentato di tenere sotto controllo la tempesta promulgando la legge sulla Deportazione
per tutti i rivoluzionari stranieri.
Noi, gli Anarchici Americani, non protestiamo, perché è Inutile sprecare energie con le persone deboli di mente guidate da Sua Maestà Fonografo Wilson.
Non pensiate che solo gli stranieri sono anarchici, siamo in
gran numero anche qui.
La deportazione non impedirà alla tempesta di raggiungere le nostre coste. La tempesta é qui e molto presto vi farà saltare e annichilire nel sangue e nel fuoco.
Non avete mostrato pietà per noi. Non ne avrete da noi.
Deportateci! Vi faremo saltare in aria!
Deportateci tutti o liberateci tutti!
Fra le righe del documento si leggeva un appello alla classe operaia americana, l'eterna assente nella lotta di resistenza portata avanti dagli aliens e, per una volta, gli americani risposero bloccando per cinque giorni l'intera città di Seattle con uno sciopero generale.
DISTRETTO 13. LE BRIGATE DELLA MORTE – John Carpenter
È un film di terrore e di sangue, ma anche un apologo sugli uomini e un'allegoria sulla irrealtà dell'America. Siamo in un sobborgo di Los Angeles, nella spirale della violenza che stringe bande di criminali e poliziotti, ma esasperata sino alla follia dall'occulta e spietata presenza d'un gruppo di guerriglieri legati in un patto di sangue, che nel loro delirio omicida intrecciano memorie politiche e riti stregoneschi. Poiché un uomo di mezza età, dopo avere ucciso uno di loro per vendicare l'assassinio della figlioletta, ha cercato scampo in un commissariato, i pazzi vanno all'assalto e sfidano la polizia circondando lo stabile in disarmo, visto che il Comando di polizia ha deciso di abbandonare quel distretto, troppo esposto ai banditi, in cui giovane tenente di colore andato a prendere le consegne ospita per la notte, insieme al padre della bimba morta e a due ispettrici, tre malviventi avviati alla sedia elettrica. Di fronte all'attacco improvviso, che la solitudine della zona e l'impossibilità di collegamenti col comando sembra rendere insostenibile, il tenente è costretto ad armare anche le donne e i tre criminali, ma le cose si mettono prestissimo al peggio perché uno dei prigionieri è subito ucciso, chi tenta d'andare in cerca di aiuti viene falciato, una delle ragazze muore e ai superstiti scarseggiano le munizioni. Dopo sparatorie disperate, e mentre il padre della bambina è bloccato dallo choc, gli assediati fanno buon uso di una cassa di esplosivi, ma quando la polizia verrà a salvarli stupirà nel trovare insieme
schierati i tutori dell'ordine e il delinquente più pericoloso... Come dire che la minaccia portata al consorzio sociale dai sanguinari fanatici impone alleanze impensabili, sua anche come dire che una grande metropoli americana, con tutta la sua civiltà tecnologica, è sempre sull'orlo della barbarie.
John Carpenter dirige, con il suo stile crudo ed essenziale, un sublime western metropolitano, dove la concezione del tempo si annulla (nonostante la precisa scansione temporale degli eventi) a favore di una rappresentazione spettrale degli spazi cittadini, popolati da fantasmi violenti che si aggirano nella desolazione di squallidi quartieri deserti. Lo stesso assedio del distretto di polizia, fulcro della storia, è una novità sostanziale: l'isolamento degli assediati non è dato dalla codardia dei concittadini ma dall'essere isolati in una metropoli di milioni di abitanti, soli in mezzo alla moltitudine, in balìa di teppisti silenti ed implacabili in cerca di vendetta. I caratteri dei personaggi assediati nel distretto sono ben rappresentati: il dolente ed ironico Napoleone, malvivente romantico e coraggioso, la ambigua e fascinosa Leigh dallo sguardo obliquo, il poliziotto integerrimo e pronto al sacrificio.
Un film in cui risuona l’eco delle preoccupazioni dei cittadini delle città di tutto il mondo, vittime della violenza e del predominio del più forte così attuale anche oggi.
Negli angusti spazi del Distretto 13 le regole e i ruoli sociali cessano di esistere, per lasciare spazio a un’organizzazione più disordinata e impulsiva, ma non priva di profondi codici morali. Messa alla prova da una minaccia non preventivabile e difficilmente analizzabile, la rigida e rigorosa macchina militare mostra così tutti i propri limiti e la propria inefficienza, nonché la sua pochezza d’animo nel trattamento del prossimo. Diventa così simbolica l’alleanza fra un poliziotto di colore, abituato a vivere in prima persona i pregiudizi e le più spregevoli bassezze, con un proverbiale uomo morto che cammina, deciso a difendere la propria vita e quella dei compagni nonostante la legge lo abbia condannato alla pena capitale. I nemici, poi, sono figure senza volto, sempre al buio, che scorgiamo ma che non vediamo mai chiaramente. E forte è il fascino di questo nemico nell’ombra, visibile ma indistinguibile, tipico del cinema horror più classico e che, applicato ad un altro genere cinematografico, funziona benissimo.
schierati i tutori dell'ordine e il delinquente più pericoloso... Come dire che la minaccia portata al consorzio sociale dai sanguinari fanatici impone alleanze impensabili, sua anche come dire che una grande metropoli americana, con tutta la sua civiltà tecnologica, è sempre sull'orlo della barbarie.
John Carpenter dirige, con il suo stile crudo ed essenziale, un sublime western metropolitano, dove la concezione del tempo si annulla (nonostante la precisa scansione temporale degli eventi) a favore di una rappresentazione spettrale degli spazi cittadini, popolati da fantasmi violenti che si aggirano nella desolazione di squallidi quartieri deserti. Lo stesso assedio del distretto di polizia, fulcro della storia, è una novità sostanziale: l'isolamento degli assediati non è dato dalla codardia dei concittadini ma dall'essere isolati in una metropoli di milioni di abitanti, soli in mezzo alla moltitudine, in balìa di teppisti silenti ed implacabili in cerca di vendetta. I caratteri dei personaggi assediati nel distretto sono ben rappresentati: il dolente ed ironico Napoleone, malvivente romantico e coraggioso, la ambigua e fascinosa Leigh dallo sguardo obliquo, il poliziotto integerrimo e pronto al sacrificio.
Un film in cui risuona l’eco delle preoccupazioni dei cittadini delle città di tutto il mondo, vittime della violenza e del predominio del più forte così attuale anche oggi.
Negli angusti spazi del Distretto 13 le regole e i ruoli sociali cessano di esistere, per lasciare spazio a un’organizzazione più disordinata e impulsiva, ma non priva di profondi codici morali. Messa alla prova da una minaccia non preventivabile e difficilmente analizzabile, la rigida e rigorosa macchina militare mostra così tutti i propri limiti e la propria inefficienza, nonché la sua pochezza d’animo nel trattamento del prossimo. Diventa così simbolica l’alleanza fra un poliziotto di colore, abituato a vivere in prima persona i pregiudizi e le più spregevoli bassezze, con un proverbiale uomo morto che cammina, deciso a difendere la propria vita e quella dei compagni nonostante la legge lo abbia condannato alla pena capitale. I nemici, poi, sono figure senza volto, sempre al buio, che scorgiamo ma che non vediamo mai chiaramente. E forte è il fascino di questo nemico nell’ombra, visibile ma indistinguibile, tipico del cinema horror più classico e che, applicato ad un altro genere cinematografico, funziona benissimo.
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