La felicità non si paga, si strappa alla società che la vende.
I rossi mattini sono meno importanti della scintilla che li accende.
L’emancipazione dei godimenti porta in sé la gratuità universale di cui perirà la civiltà mercantile.
Siamo così abituati ad aspettare, anche nei piaceri più ludici, il giro di manovella, lo scatto della ruota della fortuna, il conto da che il risultato infelice di ogni sovversione è già incluso nell’avventura. Pertanto, lo spirito di sconfitta e di disperazione è sempre sul punto di mordersi la coda come il cerchio vizioso della merce. La passione della distruzione ha cessato di essere una passione creatrice, ne è semplicemente un surrogato. In fondo alla disperazione dove ci hanno trascinato le società industriali, la gratuità comincia a farsi strada. Quando uno sciopero della cassiera libera i clienti dal loro ruolo e li aiuta a prendere e a dare senza contropartita, quando gli operai si mettono a distribuire le merci dei magazzini, quando la gente rifiuta di pagare l’affitto, la luce, i trasporti, quando l’esproprio abbandona la rabbia della disinibizione per giocare alla distribuzione festosa dell’abbondanza, possiamo domandarci se la proletarizzazione, attraverso lo scambio permanente, non trascini con sé anche la sua radicale liquidazione. Del resto il lasciarsi andare alla gratuità appartiene alla tradizione contadina e operaia.
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