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giovedì 2 dicembre 2021

L’ULTIMA ONDA – Peter Weir

David Burton è un tranquillo avvocato di Sidney, tutto lavoro e casa ove è atteso dalla moglie Annie e dalle figliolette Susan e Grace. Quando la polizia accusa alcuni aborigeni di avere ucciso uno di loro, certo Billy Corman, il reverendo Burton, un pastore, padre di David, lo induce ad assumerne la difesa nonostante non sia solito accettare cause penali. Per meglio difendere i suoi clienti, David chiede informazioni a Chris, uno di loro che lo mette in contatto con l'anziano e misterioso Charlie. Nel frattempo accadono fatti inspiegabili nella natura australiana quali piogge a ciel sereno, grandinate con chicchi colossali, discesa dal cielo di petrolio e ranocchi; e il giovane avvocato compie dei sogni che gli danno l'impressione di esser già vissuto in altra epoca. Chris, infatti, gli chiede se non sia un "mulkurul", cioè uno di quegli esseri che compaiono ciclicamente sulla terra per annunciare la fine di un'era e l'inizio di un'altra dopo una immane catastrofe. David, dopo avere cercato di mettere in salvo la famiglia, perde la causa, penetra nei sotterranei ove gli aborigeni metropolitani hanno conservato i segreti della loro ancestrale cultura e scopre quanto sta per accadere. Uscito dalle fogne, assiste al sorgere di una enorme ondata che porrà fine alla vita attuale. L'ultima onda delinea una strategia esorcistica nei confronti di un evento la cui irruzione spaventosa è continuamente profetizzata e rinviata nel corso del film.
L'evento è nettamente definito e precisato: si tratta di un diluvio di cui la cultura aborigena strutturata attorno a una concezione circolare del tempo prevede l'inevitabile ritorno, mentre la cultura bianca-occidentale a tempo lineare-progressivo assiste con crescente inquietudine e con impotenza al graduale  manifestarsi dei segni che ne preannunciano l'arrivo. L'ultima onda è, a tutti gli effetti, un film d'acqua. L'acqua irrompe quasi  in ogni  inquadratura, dolce, aggressiva, dilagante, insinuante. Muta la visione del mondo quotidiano. Immerge il mondo e le sue immagini nello stato della liquidità provocando il venir meno di ogni solida certezza. Si pensi alla sequenza - davvero splendida - in cui l'avvocato protagonista si trova  in macchina e d'improvviso uno scroscio di pioggia sul vetro del parabrezza muta la sua visione soggettiva delle cose: ancora una volta il cinema di Weir è  un lavoro sullo sguardo  e sulla possibilità di guardare le cose in modo diverso. In particolare, ne L'ultima onda, Weir  ci invita a non pretendere di svelare a tutti i costi i misteri che stanno dentro le cose, quanto piuttosto ad accarezzarli, ad accoglierli, ad entrare in affettuosa intimità con essi. Il protagonista de
L'ultima onda critica più volte il padre-prete perché ha passato la vita nel tentativo di spiegare i misteri. I misteri non vanno spiegati. Basta dare loro un nome o un segno per non  temerli, per non sentirsi più dominati da loro. Proprio come fa l'aborigeno all'inizio del film, quando dipinge l'onda terrificante sulla 
roccia, trasformandola in segno e dominandola attraverso una pratica tipica di tutte le culture animiste. Anche Weir fa un'operazione analoga col cinema: (ri)produce l'immagine di ciò che fa paura per esorcizzarlo. L'onda elettronica e fantascientifica, coloratissima, palesemente finta, che chiude il film è anche il segno linguistico dell'evento che il film, non ci mostrerà. Il monstrum resta fuori dal film, arroccato ai suoi margini, come un'ombra sinistra che, dall'esterno, attira verso di sé lo svolgersi degli eventi. Ma gli  eventi messi in scena dal film terminano, per l'appunto, prima di precipitare nel monstrum  che li ha sollecitati e determinati. Weir si ferma prima, non si limita ad evocare un'assenza, ma esorcizza un evento  preciso e ne disinnesca la potenzialità paurosa attraverso un'operazione di significazione. Dare un segno o un nome a ciò che fa  paura significa non avere più paura di lui. Gli aborigeni lo fanno attraverso i loro graffiti preistorici. 



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