Le lotte antistatali producono gli effetti ricercati, a colpi di insuccessi successivi. Lentamente va consolidandosi l’idea che è lo stato il grande problema, e che la “curvatura” dello spazio politico-sociale che esso produce, la distorsione del campo delle rappresentazioni, conseguente alla sua presenza, è impressa in tutti gli aspetti della vita, si infiltra in tutte le operazioni del codice, del linguaggio, del valore-segno. I suoi effetti strutturali risultano sia a livello conscio che inconscio. E noi impariamo a riconoscerli in aspetti occulti o insospettati dall’istituzione o dall’individuo, a estrarli dalla teoria che li travisa, dalla ideologia che li ignora, dal comportamento che si pretende neutro, o personale, o intimo. Uno studioso delle origini dello stato moderno, per nulla sospettabile di lavorare alla distruzione o alla negazione dell’istituzione, afferma che “lo stato esiste principalmente nel cuore e nello spirito dei suoi cittadini; se essi non credono alla sua esistenza, nessuna acrobazia logica potrà dare ad esso la vita”. Come il fantasma divino di cui parlava Bakunin. La religione e lo stato sono una “pazzia collettiva (che) ha penetrato tutti gli aspetti sia pubblici che privati dell’esistenza sociale di un popolo”, ogni individuo deve fare sforzi sovrumani per liberarsene e “non ci riesce mai in modo completo”. E Bakunin insiste: “anche i figli più intelligenti del popolo… non sono ancora riusciti a liberarsene totalmente. Scavate nelle loro coscienze, e vi troverete il giacobino, il governativo, rimosso in qualche angolo oscuro e divenuto assai modesto, è vero, ma non del tutto morto”. Nella produzione dell’immaginario sociale, nella sua riproduzione permanente, la dimensione planetaria dello stato, la sua onnipotenza e la sua onnipresenza, si sdoppiano in una linea astratta ed esplicita che fonda la razionalità interna del sistema, e in un’altra che non può essere che dell’ordine dell’inconscio. Ciascuna si costruisce sull’altra, e mutualmente si alimentano o si rialimentano, col risultato di produrre l’esistenza concreta, e mortifera, dell’istituto. Accanto alla nozione di stato marcia la “ragion di stato”, seguita da tutto il corteo: la dominazione e lo sfruttamento, gli apparati, le organizzazioni, i testi, la violenza, le guerre, le torture, i massacri di stato. Che lo stato copre e legittima. Questa volontà di legittimazione, di legittimità unica, è la forza con cui lo stato impone una forma equivalente a tutte le relazioni sociali; è il processo di istituzionalizzazione sotto l’egida della legge, e la trasgressione è anti-istituzionale, è la rivoluzione. La forza dello stato che “curva” la totalità del sociale, affonda le sue radici in una realtà opaca, alla cui materialità concorre l’economia allo stesso modo che “le fantasie”. È una realtà che si costruisce sullo scambio simbolico, sul significato (il senso) e la rimozione. In seguito a ciò, le rappresentazioni, le immagini, il discorso, sono, fin dall’inizio, strategie politiche nelle quali è coinvolto l’inconscio. E l’inconscio è modulato dai limiti strutturali – e strutturanti – dello stato. Lo stato garante della legge – e garantito dalla Legge dell’inconscio (la metafora paterna), contingente ed arbitraria anch’essa, come lui, – “lo stato papà-mamma dà forma alle nostre rappresentazioni, sia quelle più razionali che quelle meno”. “Lo stato si installa nell’immaginario dove può tutto”. La dimensione dell’immaginario sociale non è soltanto il luogo dell’illusione, della mistificazione, dell’inganno. La materialità quotidiana del mondo è costruita su progetti che son già tradizione, su miti che sono stati profezie, su utopie trasformate in realtà.
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