Usare la dizione critica del principio di autorità è effettivamente il criterio più coerente dal punto di vista anarchico proprio perché l’anarchismo non critica un determinato potere, un determinato Stato, una determinata autorità, un determinato dominio, ma critica, il principio che legittima la loro riproposizione in qualunque contesto-spazio-temporale questa si attui.
Il potere è l’esercizio collettivo della produzione e l’applicazione di norme e di sanzioni; un insieme inteso, complessivamente, quale funzione regolativa sociale. Essa è necessaria all’esistenza della società, della cultura e dell’uomo stesso. In questa funzione sociale regolativa volta alla produzione di norme necessarie per il funzionamento della società, il potere deve essere visto quale esercizio neutrale. Per autorità si deve intendere una situazione di asimmetria tra soggetti interagenti, che si dispiega come influenza nel caso di relazioni personali e come autorità vera e propria nel caso di relazioni funzionali. L’autorità può essere applicata nel caso di competenze e facoltà decisionali professionali specifiche, che comunque non implicano quasi mai una asimmetria permanente (ad esempio: sono un avvocato e ho bisogno del medico perché ho mal di pancia). Intesa in questo senso, l’autorità non ha una vera e propria valenza di dominio. È invece con quest’ultimo termine, dominio, che deve essere indicata una condizione anarchicamente inaccettabile. Si definisce una situazione di dominio quella che vede il potere espropriato da una minoranza a danno della stragrande maggioranza, indipendentemente dal fatto che questa minoranza utilizzi il potere per i propri privilegi (anche se quasi sempre avviene così). Vale a dire che siamo in una situazione di dominio quando il potere, cioè la funzione regolatrice della produzione di norme necessarie per il funzionamento della società, diventa possesso privilegiato di pochi a danno di più. Di qui le relazioni tra ineguali in termini di potere. Questo fenomeno è simile al possesso privilegiato dei mezzi di produzione materiale. Si vede così che la definizione di dominio è universale: può essere infatti utilizzata-applicata beninteso, nell’età moderna e contemporanea, sia per gli assetti capitalistici come per gli assetti collettivistici, siano essi di destra o di sinistra.
Per concludere, il potere è il neutro confine fra la libertà e il dominio: il poter fare definisce l’ambito della libertà, il poter far fare definisce l’ambito del dominio; naturalmente se questo poter far fare si esplica attraverso l’attivazione di mezzi coercitivi e ultimativi. Osserviamo anche che il termine potere, sempre in questa accezione, designa l'esercizio collettivo della libertà nel senso del suo incrocio con l'eguaglianza: un uguale accesso di tutti i membri di una società al potere è, dunque, prima ineludibile condizione di una uguale libertà per tutti. condizione necessaria a una libertà eguale.
Passeggia sul lato selvaggio
Holly venne da Miami, Florida,
viaggiò a modo suo con l’autostop attraverso gli USA.
Strada facendo si rase le sopracciglia,
si depilò le gambe e divenne una lei
Lei diceva “ Hey baby, fai una passeggiata sul lato selvaggio ”
Candy arrivò da fuori sull’isola:
nella stanza sul retro faceva la carina con tutti
Ma non perse mai la testa,
neanche quando si faceva spompinare,
lei diceva “ Dai bello cammina sul lato selvaggio ”
Diceva “ Hey bimbo, vieni a passeggiare dalla parte selvaggia ”
E le ragazze di colore fanno “ Do do do do do do do do ”
Il piccolo Joe non lo regalava neppure una volta:
tutti dovevano pagare e pagare
Rimorchia qui e rimorchia là,
New York è il posto dove si dice:
“ Hey baby, fai una passeggiata sul lato selvaggio ”
Io dicevo “ Hey Joe, cammina dalla parte selvaggia ”
Sugar Plum Fairy venne a battere le strade:
cercava cibo spirituale e un posto in cui mangiare
Andò all’Apollo. Avreste dovuto vedere come andava
Dicevamo “ Hey Sugar, fai un giretto sul lato selvaggio ”
Io dicevo “ Dai baby, cammina dalle parte selvaggia ”
Tutto bene
Jackie sta proprio flippando via:
pensava di essere James Dean per un giorno
Allora io sospettai che stesse per crollare,
il valium avrebbe potuto evitare quel colpo
Lei diceva “ Hey baby fai un giretto dalla parte selvaggia”
Io dicevo “ Tesoro, cammina sul lato selvaggio”
E le ragazze di colore fanno “ Do do do do do do do do.”
Nella storia universale, la creazione di una civiltà socialista è la missione più difficile che mai sia stata affrontata da una classe e da una rivoluzione. Questo compito richiede un completo sovvertimento dello Stato e un totale rivoluzionamento delle basi economiche e sociali della società. Questo non può essere decretato da una autorità quale che sia, commissione o parlamento. Solo le masse dei lavoratori possono intraprenderlo e realizzarlo. Finora in tutte le rivoluzioni la lotta è stata condotta da una piccola minoranza che ha definito scopi e tappe. Essa si appoggiava alle masse che considerava solamente uno strumento per la realizzazione dei propri interessi.
Al proletariato non si chiede soltanto di definire in modo responsabile e cosciente gli obiettivi della rivoluzione e la strada da percorrere per conseguirli; è anche suo compito quello di impegnarsi per introdurre nella pratica, passo dopo passo, il socialismo nella società.
L'essenza della società socialista consiste nel fatto che la grande massa dei lavoratori cessa di essere diretta da altri e comincia a vivere in prima persona la vita politica ed economica, determinandone liberamente e consapevolmente il corso. Così, dal più alto vertice dello Stato al più piccolo dei Comuni, il proletariato deve sostituire gli organi ereditati dalla dominazione borghese, consigli federati, parlamenti e consigli comunali con i propri organi di classe, i consigli degli operai. Deve occupare tutte le cariche, esercitare il proprio controllo su tutte le funzioni, commisurando ogni atto dello Stato agli interessi della classe operaia e ai compiti del socialismo. Solo una costante e intensa interazione tra il proletariato e i suoi organi i consigli permetterà di giungere a uno Stato di tipo socialista.
Soltanto i lavoratori possono trasformare le parole in fatti concreti con il loro operato. Nella lotta tenace, faccia a faccia, con il capitale in ogni azienda, con la pressione diretta esercitata dalle masse, con gli scioperi e la creazione dei loro organi rappresentanti permanenti, i lavoratori potranno prendere il controllo della produzione e infine assumerne la direzione effettiva.
La socializzazione dell'economia può essere realizzata in tutta la sua pienezza dalla lotta tenace e instancabile delle masse operaie in ogni ambito in cui il lavoro è opposto al capitale e il proletariato al dominio della borghesia. L'emancipazione della classe operaia deve essere opera del proletariato stesso.
La psichiatria, sia ben chiaro, non cura le malattie del cervello e del sistema nervoso ma le malattie della mente, come a volte ammettono senza pudore gli psichiatri, i disturbi del pensiero e del comportamento, ma la cosa più strana è che cura questi problemi con dei farmaci che agiscono proprio sulle connessioni nervose alterando il funzionamento cerebrale, farmaci detti a seconda dei casi tranquillanti, ansiolitici, calmanti, antidepressivi, ma che in realtà non sono altro che vere e proprie droghe sintetiche.
Ma d’altronde dallo psichiatra non si va in genere perché ci si sente male, bensì ci si viene portati di forza o con l’inganno perché si viene considerati strani, diversi, ossia perché ci si comporta in una maniera che dà fastidio alla gente, che urta il comune buon senso. E lo psichiatra analizza il comportamento del malato, gli fa alcune domande, magari osserva le espressioni del suo volto e tira fuori la sua diagnosi in una maniera così professionalmente svincolata da ogni criterio di scientificità da fare veramente paura. E la diagnosi nove volte su dieci è schizofrenia, che significa tutto e niente: basta consultare un paio di libri di psichiatria per leggere le definizioni più disparate di questa malattia che finiscono per comprendere come schizofrenico qualsiasi comportamento umano. D’altronde la parola stessa significa comportamento contraddittorio. Pensano forse questi dottoroni che la persona non provi mai sentimenti, emozioni, che sia sempre razionale e mai in contraddizione con sé stesso? E non riescono a capire che quello che è contraddittorio per loro può non esserlo per altre persone? Pensano forse che le persone debbano ragionare tutti nella medesima maniera? Oppure ti dicono che soffri di depressione, cioè sei triste, angosciato, vedi tutto nero, e ti dicono che questa è una malattia, che in una società di automi alienati che pensano solo alle apparenze, in una società come la nostra dove regnano solo il denaro, il conformismo, l’arrivismo, il consumismo, in cui ognuno pensa solo per sé e tu sei solo contro tutti, hanno il coraggio di dire che chi si sente depresso è malato?
Malati sono loro, sono loro i pazzi, i criminali che vogliono far credere che il pazzo sei tu che non sei felice in questa società da incubo, tu che non ti adegui ad essa … no, i pazzi sono loro che vogliono difendere questo sistema malato, marcio dalle fondamenta con i loro giudizi preconfezionati di chi non sa capire la complessità di un essere umano, loro i criminali che rinchiudono negli ospedali psichiatrici gli oppositori e i dissidenti sociali e politici.
La psichiatria uccide, la vita non si cura.
Considerato indispensabile all’essere umano, il Lavoro è in realtà ciò che più lo mortifica.
Quali lavoratori oserebbero, in tutta sincerità, proclamare la propria gioia, la propria intima soddisfazione per il lavoro che compiono? Il lavoro è comunque schiavitù, non tanto e non solo quello più servile e avvilente, l’atto quotidiano di prostituirsi al fine di assicurarsi una magra pietanza, nel suo affliggente avvicendamento di alienazione, fatica e noia. Sia chiaro che il problema non sta nella qualità tanto meno nella quantità del lavoro svolto. Anche quei pochi fortunati pronti a dichiararsi soddisfatti del mestiere che fanno magari prestandosi utili e virtuosi come volontari, pagano il proprio privilegio con l’addomesticamento.
Allo stesso modo, le chiacchiere sulla riduzione dell’orario lavorativo servono a far dimenticare che il lavoro non conosce orario. Tutta la nostra esistenza è scandita dal lavoro, dai suoi ritmi e dalle sue necessità. Anche il nostro riposo , anche il nostro piacere, anche il cosiddetto tempo libero. Il nostro futuro è progettato sul lavoro. La nostra mente è programmata sul lavoro. Volenti e dolenti, siamo dipendenti dalla tossicità del lavoro 24 ore al giorno. Proprio grazie al suo carattere totalitario il lavoro ci viene presentato come la sola possibilità che abbiamo di realizzarci, di socializzare con gli altri, ci viene imposto come unica condizione di vita.
Il lavoro serve da ossatura e da armatura all’organizzazione sociale, la consolida, contribuisce al mantenimento e alla riproduzione di questa società basata sulla gerarchia e sullo sfruttamento. Lavorare significa produrre merci (non solo materiali tangibili) necessarie alla sopravvivenza e alla conservazione della società. Accettare l’ineluttabilità del lavoro è il modo migliore per perpetuare lo stato di sopravvivenza e la società. Ecco perché sul lavoro non si può neanche pensare di costruire un qualche progetto di rinnovamento sociale.. non esiste lavoro liberato, lavoro alternativo, lavoro ridotto, nemmeno quando ci si illude di compierlo in uno spazio che ci siamo conquistato. Le catene che ci imprigionano devono essere spezzate, anche quando vengono allungate, anche quando vengono alleggerite. La libertà ha niente a che fare con la politica del male minore.
Fra tanti idoli che stanno cadendo miseramente nella polvere, ce n’è dunque uno che sembra rimanere inattaccabile e in attaccato: il LAVORO. Certo, si può provare ad ignorarlo, a subirlo passivamente pur considerandolo estraneo alla nostra vita, ma questo non ci potrà mai soddisfare, né ci potrà restituire le nostre facoltà le uniche che possano consentirci di progettare da soli la nostra esistenza. Perché l’indifferenza non ci basta più. Perché il distacco non modifica le condizioni. Per sentirci paghi vogliamo intervenire direttamente così da far cessare questa inesorabile tirannia. Attraverso il sabotaggio, attraverso la distruzione del lavoro, attraverso tutti i piaceri che decideremo di prenderci fissando da noi le regole del gioco.
(Archivio storico: Volantino per una tre giorni contro il lavoro a EL PASO occupato, Torino 01/04/1994)
Il termine schiavitù evoca un mondo di oppressione, di violenza, di degrado e di resistenza. Il razzismo vile e ingannevole di chi nel Diciannovesimo secolo faceva l'apologia dello schiavismo è inequivocabile dal nostro punto di vista del Ventunesimo secolo; ma quanti considerano la forma di schiavitù del nostro secolo sotto una luce altrettanto rivelatrice?
Nel nome del progresso, lo sviluppo su scala mondiale e l'impero stanno schiavizzando l'umanità e distruggendo la natura, dappertutto. Il rullo compressore noto come globalizzazione ha assorbito quasi ogni opposizione, schiacciando la resistenza per mezzo di un sistema capitalistico e tecnologico implacabile e universalizzante. Un senso di fatalità prossimo al nichilismo viene accettato come risposta inevitabile alla modernità.
Ma le ragioni che stanno dietro al cambiamento globale si palesano agli occhi di chi voglia esaminarne i presupposti fondamentali. Il degrado della vita, che avanza a pieno ritmo in ogni ambito, deriva dalle dinamiche della civilizzazione stessa. L'addomesticamento degli animali e delle piante, un processo vecchio di appena diecimila anni, ha pervaso ogni centimetro quadrato del pianeta. Il risultato è l'eliminazione dell'autonomia e della salute individuale e comunitaria, oltre alla distruzione dilagante e accelerata, del mondo naturale. La globalizzazione non è una novità. La divisione del lavoro, l'urbanizzazione, la conquista, l'esproprio e le diaspore sono state parte integrante e fardello della condizione umana sin dall'inizio della civilizzazione. Ma la globalizzazione spinge il processo di addomesticamento a nuovi livelli. Adesso il capitale mondiale vuole sfruttare tutta la vita a disposizione; questo è uno dei tratti caratteristici e originali della globalizzazione. Agli albori del Ventesimo secolo, alcuni osservatori constatarono l'instabilità e la frammentazione che necessariamente accompagnavano la modernizzazione. Queste diventano ancora più evidenti nella fase attuale, molto probabilmente quella terminale. Il progetto di integrazione attraverso il controllo planetario provoca ovunque disintegrazione: maggior sradicamento, ripiegamento, inutilità... e nulla di tutto questo è comparso nel volgere di una notte.
Le banalità per quel che nascondono, lavorano per l’organizzazione dominante della vita. Come lo è dire il linguaggio non è dialettico, per vietare così l’uso di ogni dialettica. Ora niente è manifestatamene più sottomesso alla dialettica che il linguaggio, in quanto realtà vivente. Così ogni critica del vecchio mondo e stata fatta con il linguaggio di questo mondo eppure contro di esso, dunque automaticamente in un linguaggio altro. Ogni teoria rivoluzionaria ha dovuto inventare le proprie parole, distruggere il senso dominante delle altre parole e portare nuove posizioni nel mondo dei significati, corrispondente alla nuova realtà in gestazione, e che bisogna liberare dal guazzabuglio dominante. Le stesse ragioni che impediscono ai nostri avversari (i padroni del Dizionario) di fissare il linguaggio, ci permettono oggi di affermare posizioni altre, negatrici del senso esistente. Tuttavia sappiamo in anticipo che queste stesse ragioni non ci permettono affatto di ambire ad una certezza legiferata definitivamente; una definizione è sempre aperta, mai definitiva; le nostre valgono storicamente, per un periodo dato, legato ad una prassi storica precisa.
È impossibile sbarazzarsi di un mondo senza sbarazzarsi del linguaggio che lo nasconde e lo garantisce, senza mettere a nudo la sua verità. Come il potere è la menzogna permanente e la verità sociale, il linguaggio ne è la garanzia permanente e il Dizionario il suo riferimento universale. Ogni prassi rivoluzionaria ha provato il bisogno di un nuovo campo semantico e di affermare una nuova verità; dagli Enciclopedisti fino alla critica del linguaggio stereotipato stalinista (da parte degli intellettuali polacchi nel 1956), questa esigenza non smette di venire affermata. Il fatto è che il linguaggio è la dimora del potere, il rifiuto della sua violenza poliziesca. Ogni dialogo con il potere e violenza, subita o provocata. Quando il potere risparmia l’uso delle armi, è al linguaggio che affida la cura di conservare l’ordine oppressivo. Di più ancora, la coniugazione dei due è l’espressione più naturale di ogni potere.
I Poeti di Terra
Che scrivono piccole poesie
Non hanno bisogno dell’aiuto di nessun uomo.
I Poeti d’Aria
Suonano i più rapidi venti
E a volte s’adagiano nei turbini.
Poesia dopo poesia,
Usan la stessa spinta per rannicchiarsi in sé.
A cinquanta sotto
Il petrolio combustibile non scorre
E il propano se ne resta nel serbatoio.
I Poeti di Fuoco
Bruciano allo zero assoluto
Amor fossile risucchiato.
Il primo
Poeta di acqua
Rimase giù sei anni.
Si ricoprì di alghe.
La vita nella sua poesia
Lascio milioni di minuscole
Orme diverse
Che si intrecciavano nel fango
Col Sole e la Luna
In pancia,
Il Poeta dello Spazio
Dorme.
Non c’è fine al cielo –
Ma le sue poesie,
Come oche selvatiche
Volano oltre il bordo.
Un poeta della Mente
Resta in casa.
La casa è vuota
E non ha i muri.
Una sua poesia
La si vede da tutte le parti,
Dappertutto,
In un colpo d’occhio.
Il 9 dicembre 1893, a Parigi, alla Camera dei deputati, è in corso la convalida di alcuni parlamentari, il deputato della prima circoscrizione di Reims, Louis Mirman, sta difendendo la propria causa. Siccome la sua voce è debole, per poterlo sentire la maggior parte dei suoi colleghi è discesa nell’emiciclo ed il visconte di Montfort, suo avversario, si prepara all’assalto, brandendo fogli pieni di appunti.
Sono le quattro e cinque. Con un ampio gesto circolare della mano, Louis Mirman termina il proprio discorso: “Io rimarrò qualunque cosa decidiate, un avversario leale e risoluto!”
Nella tribuna chiamata petite tribune des billetes, una certa signora Laport, moglie d’un commerciante all’ingrosso di vini, vede un braccio, che passa al di sopra della sua spalla, gettare un oggetto che emette una specie di sibilo regolare. Subito un lampo azzurrognolo solca la sala all’altezza delle tribune, segue una formidabile esplosione, poi una grandine di proiettili schizza a ventaglio, abbattendosi sugli spettatori e sui parlamentari. Si levano urla di dolore e quando il fumo si dirada, molte persone sono stese a terra, mentre altre si precipitano verso l’uscita, gettando grida di dolore e di spavento.
La sala ha l’aspetto di un campo di battaglia.
Alcuni deputati si tolgono i proiettili di dosso, proiettili consistenti in chiodi di tre centimetri, che si sono conficcati nei loro corpi o sul viso; il generale Billot, membro del consiglio superiore di guerra, si rialza attonito, mentre l’abate Lemire resta disteso sanguinante. Il suo viso è coperto di rivoli di sangue, mentre dei pezzi di ferro bianco gli formano sulla fronte una specie di corona.
All’ispettore di polizia Agron, nella infermeria speciale del carcere, Vaillant dichiara: “Sono un anarchico e ce l’ho con l’organizzazione della società. Bisogna che tutto cambi, ed io ho voluto colpire al vertice, colpire il governo. Sfortunatamente, una donna m’ha intralciato mentre gettavo la bomba, sicchè la traiettoria è stata deviata ed è scoppiata in aria. Altrimenti stendevo cento deputati".
Sempre su richiesta dell’Ispettore, Vaillant scrive un biglietto per il giudice istruttore Henri-Balthazar Mayer:
“Signor giudice, per capriccio ho voluto lasciarla cercare. Suppongo però che si stiano perseguitando degli innocenti per trovare il vero colpevole. Non cerchi più, sono io. D’altronde non ho voluto uccidere (ed è per questo che nella mia bomba avevo messo dei chiodi al posto delle palle), ma solo dare un avvertimento. Preferivo ferire duecento deputati, che ucciderne uno o due”.
Alcuni dei nostri avversari ci accusano spesso di non avere programma. Se per programma s’intende una nuova forma elaborata in tutti i suoi più minuti particolari, nella quale si vuole mettere l’umanità di buon volere o di forza, il dire che non abbiamo programma è renderci la più ampia giustizia, qualificarci per veri amici della rivoluzione, per anarchisti quali ci vantiamo. Ma se per programma s’intende una meta con la strada che vi mena, uno scopo con la designazione dei mezzi per raggiungerlo, una bandiera di lotta per la vita e per la morte, un’ideale della nostra esistenza, allora noi risponderemo che l’accusa è assolutamente gratuita, perché noi abbiamo un programma, e chiaro, netto e preciso.
La prima parola del nostro programma è anarchia, che ne contiene, per così dire, la sua quinta essenza e tutto in essa sola la sintetizza. Se, come già dicemmo, l’eguaglianza economica è tutt’altro che impossibile senza la libertà, l’anarchia al contrario esige la più completa eguaglianza fra gli uomini.
Non solo l’ideale, ma la nostra pratica e la nostra morale rivoluzionaria sono eziandio contenute nell’anarchia; la quale viene così a formare il nostro tutto rivoluzionario. È per ciò che noi l’invochiamo come l’avvenimento completo e definitivo della rivoluzione: la rivoluzione per la rivoluzione.
A noi, dell’anarchia, è confidata solamente la missione distruttrice. Noi forse periremo in un’avvisaglia od ai primi colpi della grande giornata; forse a qualcuno sarà dato persino mirare i primi albori dell’avvenimento umano. In tutti i casi, noi cadremo soddisfatti. Soddisfatti di aver concorso alla certa rovina di questo mondo iniquo, crudele, infame; che, crollando, ci seppellirà nella più gloriosa tomba concessa mai a combattenti.
Ben altri uomini nasceranno dalle viscere stesse della feconda rivoluzione, per assumere il compito di attuare la parte positiva ed organica dell’anarchia.
Odio, guerra e distruzione a noi, ad essi amore, pace e felicità.
Il film inizia con una serie di ciak che preludono alla esposizione delle costrizioni tecniche, economiche e ideologiche in cui il film è nato. Mentre si vede una mano che firma assegni e cambiali per pagare il personale e il materiale che servirà al film, una voce ricorda che per fare un film occorrono capitali, attrezzature, un paio di vedette, una storia d’amore … le due vedette sono Jane Fonda e Yves Montand. Lei, una giornalista di una stazione radio americana a Parigi, cerca quando può di far scivolare come informazioni le sue simpatie per la sinistra rivoluzionaria. Lui, un regista, che hai tempi del maggio ha girato film militanti e che ora non si sente più di fare film di puro spettacolo, e vive con la pubblicità aspettando nuove occasioni. I due si trovano coinvolti quasi per caso in un avvenimento che considerano con simpatia, ma che eccede le loro reali capacità di comprensione: entrati per un servizio giornalistico in una fabbrica occupata, nella quale gli operai hanno sequestrato il padrone, rimangono a loro volta bloccati poiché gli scioperanti non intendono fare distinzioni fra padroni e intellettuali che sono, in definitiva, al servizio di questi. La rappresentazione della fabbrica occupata è uno spaccato della realtà del lavoro e della ribellione operaia. Ognuno dei protagonisti risponde anche ad una intervista: il padrone cercando di negare la stessa realtà delle classi, nel suo riformismo paternalistico; gli operai più attivi descrivendo l’alienazione del lavoro e rispondendo alla repressione con gesti di creatività proletaria; i delegati sindacali o gli operai iscritti al partito richiamandosi continuamente al pericolo dell’avventurismo e della provocazione.
La sequenza della fabbrica occupa quasi metà della pellicola, ma questa lunga sequenza serve solo da reagente per la particolarissima storia d’amore del film: fa cioè scattare la presa di coscienza dell’uomo e della donna, mette in crisi la loro convivenza basata solo su una generica comunanza di interessi: denaro, sesso, progressismo borghese. Inizia così per la coppia una lucidissima confessione e riflessione sul proprio lavoro e il proprio impegno dopo la frattura del maggio 68. Riflessione che è fatta dal film stesso, che con qualche immagine di repertorio e con scontri fra gauchistes e polizia ricostruiti simbolicamente effetua il più lucido bilancio che il cinema abbia compiuto su quella esaltante stagione. I temi della mercificazione totale, della vita e della politica, sono ripresi allora in un lunghissimo piano sequenza girato all’interno di un supermercato, dove due interminabili carrellate laterali avanti e indietro scoprono prospettive di prodotti di consumo e banchetti di vendita politica, con un membro del partito comunista che offre a prezzo scontato copie di un programma-manuale per la felicità futura. Se tutto è merce la risposta non può essere che la distruzione della merce in quanto tale: ecco allora l’irruzione nel supermercato di un gruppo di estremisti che annunciano che tutto è gratis ed iniziano il saccheggio, imitati di soppiatto dagli stessi poliziotti intervenuti prontamente a manganellarli. Lui e Lei alla fine si ritroveranno, in un bar, e ricominceranno a parlarsi.
Il business, nella società moderna, è rappresentato dai servizi. Anche il servizio sociale, nella società moderna, è una forma di business.
Ciò si riflette nel linguaggio utilizzato dai suo addetti. Al giorno d'oggi gli operatori dei servizi alla persona, al pari di chi li dirige, parlano di prodotti educativi, o di consumatori dei servizi sanitari. I loro clienti vengono definiti in termini di mercato; i tecnocrati - una specie di professionisti del tutto nuova - sviluppano metodi ad hoc per creare mercato a favore dei servizi, attingendo alle tecniche del management aziendale. I computer misurano e memorizzano "input" di ordine psicologico, e "output" di livello familiare. Si tratta, rispettivamente, delle unità servite e delle unità di servizio,
Qualificati economisti, statistici e pianificatori gestiscono la produzione e il consumo dei servizi sociali, né più né meno di quanto farebbero per la produzione, il consumo e la manutenzione di beni materiali.
Se andiamo oltre la facciata del prendersi cura, potremo vedere il vero volto delle cose: operatori professionali che hanno bisogno di guadagnare attraverso i servizi, dentro un sistema economico che ha bisogno di crescere. Se questo è lo scenario, l'utente non è tanto una persona in condizioni di bisogno, quanto una persona di cui c'è bisogno. In termini aziendali, l'utente non è tanto il consumatore, quanto la materia prima del sistema dei servizi. L'utente riveste una funziona essenziale: quella di soddisfare i bisogni di chi lavora nei servizi, del sistema dei servizi e di tutta l'economia di una nazione. Il nocciolo della questione, dal punto di vista della politica, sta quindi nella capacità di chi lavora nei servizi di manipolare i bisogni per ampliare sempre più le basi economiche del sistema dei servizi.