Il dominio del lavoro sulla vita non è dominio di natura, bensì il prodotto di un modo di organizzazione delle attività umane voluto dagli uomini e volto allo sfruttamento generalizzato e sistematico delle energie fisiche e psichiche di ciascuno di noi. Il lavoro salariato è solo la forma più compiuta di questo dominio, l’arbitrarietà del quale è oggi messa a nudo insieme dallo sviluppo tecnologico-scientifico e dal cambiamento della nostra disponibilità al lavoro. Questo dominio non è però solo illegittimo, come del resto ogni altro dominio. Esso rappresenta un ostacolo all’emancipazione individuale e collettiva, alla ricerca della felicità. Il lavoro salariato è espropriazione di tempo di vita, impoverimento esistenziale, un ostacolo alla libera realizzazione di se stessi, all’espressione spirituale di ogni individuo. Il dominio del lavoro limita e disturba la costruzione di relazioni sociali e interpersonali. È, più semplicemente, una limitazione della qualità di vita. Si tratta allora, ed è insieme pensabile, realizzabile e giusto, rompere ed eliminare questo dominio. Occorre solamente volerlo.
Contro la “nocività del lavoro” riconquista tempo e vita.
La difesa del lavoro è evidentemente una strategia perdente. Di fronte alla sfrenata e malata sete di denaro che anima il capitalismo globale, di fronte ad un meccanismo di accumulazione che non è più in alcuna relazione né con i bisogni reali né tantomento con i limiti di consumo delle società umane, non ci resta altra scelta che ritrovare la dignità di dire no. La dignità del rifiuto. Una prassi di rifiuto del lavoro, se praticata individualmente, può aiutare a riconquistare coscienza, a smettere di funzionare meccanicamente. Ma se pratica collettiva diventa un’arma. E allora bisogna avere chiaro come utilizzarla.
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