La mia generazione è un film di trent’anni fa ma ancora capace di raccontare il senso di dignità e sconfitta degli anni Settanta. Perché non solo non è invecchiato, ma al contrario, di fronte alla rimozione ideologica di questi anni, in grado di dare voce a un pezzo di quella generazione che non ha avuto successivamente alcuna riabilitazione. Nel film regna la disillusione, tanto politica, simboleggiata da Braccio, quanto quella lavorativa ed esistenziale rappresentata dal
Capitano dei carabinieri. E’ un’Italia sconfitta quella che risale la penisola sul furgone blindato dei carabinieri. La fine della lotta armata, che per sineddoche descrive la fine del movimento rivoluzionario degli anni Settanta, porta con sé anche l’altra parte della barricata, quell’Italia legata allo Stato e alle sue istituzioni da difendere. Senza più idee né ideali il prezzo della sconfitta è la totale rassegnazione all’esistente, una rassegnazione che travolge tutti gli attori in campo e di cui oggi se ne vedono chiaramente i frutti maturi. Ovviamente non è la sconfitta dello Stato, ma delle sue pedine incoscienti, dei suoi piccoli servitori, dei convinti ad una causa più per tornaconto che per ideale.
E’ per questo che la dignità con cui Braccio fa fronte alla sua sconfitta e all’idea di altri trent’anni di carcere prova a riscattare le ragioni di una “generazione perduta” e che, neanche trentenne, era già condannata a sopravvivere senza umanità il resto della propria vita. Molti non hanno resistito e alla fine quei nomi li hanno fatti o, meno direttamente, si sono dissociati da un’esperienza chiudendo malamente un capitolo della loro vita. Altri hanno seguito la strada della dignità. Una strada tragica, difficile, triste. Ma l’unica scelta umana possibile. Passati quarant’anni non dubitiamo che questi siano gli unici che, nel silenzio della sera, prima di addormentarsi, nella solitudine dei propri pensieri, riescano ancora a dormire con quella serenità impossibile a chi non ha avuto lo stesso coraggio.
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