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giovedì 21 dicembre 2017

Quarantanni fa … il ’77 (capitolo XXXVII)

23 settembre: a Bologna, convegno internazionale contro la repressione. La città è presidiata da più di 6.000 poliziotti, inizia il convegno internazionale sulla repressione, a cui partecipano migliaia di giovani. La polizia compie perquisizioni sulle strade e sulle autostrade intorno alla città, controllando 27.000 persone e compiendo 10 arresti per possesso di armi proprie o improprie, oppure di stupefacenti. La prima riunione è quella dell’Autonomia. Al Palasport, nella prima assemblea generale, il gruppo di autonomi di via dei Volsci impedisce a forza l’ingresso ai militanti del MLS, che solo dopo essere stati perquisiti, vengono infine fatti entrare. Una lettera di Bifo da Parigi viene accolta dai fischi dell’assemblea. Viene pubblicato per l’occasione il numero unico Benvenuti nella città più libera del mondo: La storia presenta pochi esempi di un movimento di rivolta sociale della profondità di quello che è cominciato in Italia nel febbraio 1977. Dappertutto, in tutte le fabbriche dell’alienazione, scoppiano lotte selvagge contro il lavoro che i burocrati sindacali non riescono più né ad impedire né a nascondere. Qua e là appaiono le prime forme di organizzazione autonoma del proletariato, con i delegati revocabili dalla base. Il partito detto comunista non ha più la forza di apparire ciò che non è. E poiché gli stalinisti vogliono tenere il proletariato prigioniero nella logica dei loro interessi di dominio, il PCI è diventato la Bastiglia della rivoluzione italiana: soltanto distruggendolo, essa vincerà. Siamo qui per combattere la repressione in atto, non per lamentarcene, non dobbiamo fare la retorica della repressione, dobbiamo sconfiggerla. La nostra lotta alla repressione deve essere una lotta offensiva, come lo è la nostra lotta contro tutti i poteri della società di classe. Non dimentichiamo, compagni, che la violenza della repressione è inversamente proporzionale alla violenza delle lotte, e al numero dei combattenti. Dove molti infrangono le leggi e le convenzioni, nessuno viene punito; e mentre le lotte circoscritte sono facilmente represse, quelle grandi e gravi sono premiate dalla vittoria. Tornare all’offensiva significa: generalizzare e radicalizzare l’insubordinazione a qualsivoglia gerarchia, esercitare la nostra creatività distruttiva contro la società dello spettacolo, sabotare le macchine e la merce che sabotano la nostra vita, promuovere scioperi generali selvaggi a tempo indeterminato, riunirsi sempre in assemblea in tutte le fabbriche della separazione, eleggere delegati sempre revocabili dalla base, collegare costantemente tutti i luoghi di lotta, non trascurare tutti i mezzi tecnici (radio, etc.) utili alla comunicazione liberata, dare un valore d’uso diretto a tutto ciò che ha un valore di scambio (merce, etc.), occupare in permanenza le fabbriche e gli edifici pubblici, organizzare l’autodifesa dei territori conquistati. Avanti, musica! Fin’ora, tutte le misure repressive, dalla minima alla massima, dalla calunnia ai carri armati, non hanno giovato al potere, perché non sono riuscite ad impedire niente di ciò che è successo. Ma non dobbiamo dimenticare mai che il più piccolo errore compiuto dal movimento ci può nuocere in maniera irrimediabile. La poca chiarezza teorico-pratica su una questione strategica, come quella delle armi, rischia di produrre effetti molto gravi se non è rapidamente superata, dalla radicalità stessa del movimento. Le armi vanno usate quando tutti sono pronti ad usarle. Chi oggi gioca con le armi, gioca con il potere, che è molto più armato di noi; e col potere non bisogna giocare, bisogna distruggerlo. Da un punto di vista pratico, usare le armi in una manifestazione di ventimila persone, dove solo cento sono armate, non è solo inutile, ma dannoso: si espongono al fuoco della polizia migliaia di compagni che non possono difendersi. Quei compagni che si preoccupano di possedere fin d’ora un’arma, sono degli ingenui: quando ci serviranno davvero le armi, le prenderemo molto semplicemente al nemico. Se vogliamo combattere la repressione, combattiamo anche ciò che può fornire un pretesto e una giustificazione alla repressione. Coloro che si auto-compiacciono nell’uso stupido delle armi, non sono la parte più avanzata e più «dura» dell’attuale movimento rivoluzionario, ma la retroguardia della sua coscienza teorica e strategica.
Quanto al terrorismo, In Italia oggi è assolutamente privo non solo di utilità, ma anche di giustificazioni. Questo movimento è, per il semplice fatto di essersi manifestato nelle forme in cui si è manifestato, il rifiuto definitivo di tutti i partiti e di ogni gerarchia, la critica vivente di tutte le ideologie e della politica specializzata, il rifiuto del lavoro e della disoccupazione, il gusto della comunicazione liberata e del dialogo, e quindi anche della festa e del gioco. Vigiliamo, compagni, impedendo con ogni mezzo che si formino nuova- mente fra di noi gerarchie e gruppetti burocratici con la pretesa di dirigerci! Non abbiamo alcun bisogno di servizi d’ordine per sapere quello che dobbiamo fare, o evitare di fare: la nostra intelligenza è sempre sufficiente a comprendere le necessità della situazione. I servizi d’ordine commettono sempre più prevaricazioni ed errori di quanti non ne impediscano; il loro ruolo poliziesco all’interno del movimento riproduce di fatto un potere separato, controrivoluzionario. Essi costituiscono la base per ricreare ogni gerarchia, e diventano lo strumento di coloro che hanno ambizioni di leader, non avendo capito niente né di questo movimento né della rivoluzione sociale. La passata esperienza, e la moderna teoria rivoluzionaria ci insegnano che «l’organizzazione rivoluzionaria ha dovuto imparare che non può combattere l’alienazione sotto forme alienate» (Debord, La Società dello Spettacolo). Ciò che è necessario ora, lo era fin dall’inizio del progetto
rivoluzionario proletario. Si tratta dell’azione autonoma della classe operaia in lotta per l’abolizione del salariato, della merce, dello Stato. Compagni, seminiamo il vento: raccoglieremo tempesta! Diffondiamo dappertutto queste parole d’ordine, con ogni mezzo, radio, manifesti, scritte, interventi, etc.: - Abolizione della società di classe - Tutto il potere ai consigli operai - Il lavoro è il sabotaggio della vita: sabotiamo il lavoro - Distruzione della società dello spettacolo - L’umanità non sarà felice che il giorno in cui l’ultimo burocrate sarà impiccato con le budella dell’ultimo capitalista - Liberazione immediata di tutti gli arrestati - L’emancipazione dei lavoratori sarà opera di loro stessi o non sarà”. Al convegno più della politica conta forse la voglia di stare insieme e di esprimersi attraverso la festa: “C’era una divisione, a quel convegno: gli zombie rintanati nell’università a farsi le loro assemblee, e la parte viva, la gente vera del movimento, fuori, a suonare, a cantare, a far casino”. Fanno la loro comparsa ufficiale i primi punk: Poi è arrivato il convegno sul dissenso: lì ha suonato per la prima volta un gruppo di compagni di piazza che noi non conoscevamo molto, e che si chiamava Centro d’Urlo Metropolitano poi Gaznevada. E’ stato uno spettacolo veramente di rottura, in uno spazio decentrato, Piazza dell’Unità, che è fuori, alle spalle della Stazione. Allora erano su una linea molto punk, con giacconi di pelle, occhiali neri, borchie, eccetera, erano già arrivate le prime immagini del punk dall’America e dall’Inghilterra. Ecco, la gente la prese anche bene, in generale, ma i compagni del convegno erano tutti molto incazzati, c’era chi li voleva menare, dicevano che erano fascisti. Loro hanno fatto il loro spettacolo, in particolare questa canzone che era «Mamma dammi la benza». In effetti, l’impatto immediato del Centro d’Urlo è piuttosto solforico: i compagni di movimento, che si erano riuniti attorno a parole d’ordine speranzose e costruttive del tipo «cambiamo la vita, cambiamo la società», non potevano reagire molto bene a una cosa come «Mamma dammi la benza / non posso farne più senza / ne sento già la mancanza / esiste la dipendenza / o mamma dammi la benza. Da Roma, Berlinguer definisce gli autonomi “nuovi fascisti”. 
24 settembre: a Bologna prosegue il convegno. In Piazza Maggiore il dibattito coinvolge e verte sul rapporto fra operai e movimento. Calano le presenze al Palasport. “A Bologna applausi ironici e fischi per la maggior parte degli intellettuali intervenuti all’assemblea del movimento; il filosofo francese Félix Guattari viene ascoltato con disinteresse e cortesia. In serata, a Bologna, con la frase «Saluti compagni», pronunciata allegramente da un gruppo di una quindicina di giovani, tornano le autoriduzioni, in una pizzeria del centro e in un ristorante, il Lamma (dove una ventina di giovani mangiano abbondantemente e lasciano sul tavolo 5.500 lire delle 60.000 del conto
25 settembre: a Bologna si svolge il grande corteo dei 70.000 che pone fine alla manifestazione contro la repressione. Dietro allo striscione con la scritta «Paolo e Daddo liberi» sono circa 7.000 gli autonomi organizzati. 

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