La riduzione drastica del tempo di lavoro costituisce una prima protezione contro la flessibilità e la precarietà. Per questo motivo deve essere mantenuto e rafforzato il diritto del lavoro, oggi nel mirino dei liberisti in quanto fonte di rigidità. Questo non può che facilitare la decrescita. Bisogna difendere dei minimi salariali decenti, contro le teorie degli economisti della disoccupazione volontaria, un'impostura del nostro tempo. E' indispensabile un ritorno alla "demercificazione" del lavoro. Il gioco attuale del "minor offerente sociale" è altrettanto inaccettabile di quello del minor offerente ecologico. Nel 1946 un salariato di venti anni doveva aspettarsi di lavorare un terzo della sua vita da sveglio; nel 1975 soltanto un quarto, oggi meno di un quinto. Abbiamo per questo la sensazione di esserci liberati dal lavoro? Probabilmente meno che mai. "Per il salariato - scrive Bernard Maris - non c'è la fine del lavoro, come sembrerebbe indicare la diminuzione tendenziale delle ore lavorate, ma piuttosto il lavoro senza fine, la precarietà, l'isolamento, lo stress, la paura e la certezza di perdere rapidamente il lavoro".
La riduzione del tempo di lavoro e il cambiamento del suo contenuto sono dunque innanzitutto scelte di trasformazione sociale, risultati della rivoluzione culturale che la decrescita richiede. Dilatare il tempo non soggetto a vincoli e obblighi per permettere la realizzazione personale dei cittadini nella vita politica, privata e artistica, ma anche nel gioco o nella contemplazione, è la condizione indispensabile per la creazione di una nuova ricchezza.
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