Un filmato d’epoca costituisce l’incipit. In una Milano ombrosa, un giovane e determinato Ignazio La Russa, con alle spalle il Castello Sforzesco, arringa il popolo della variegata destra del tempo contro la minaccia del comunismo. A seguire i funerali di Giangiacomo Feltrinelli e gli slogan che promettevano vendetta per la sua morte. Le immagini di guerriglia urbana che seguono si chiudono con la transizione dalla cronaca alla realtà filmica e con l’assalto alla redazione di Il Giornale (nulla a che vedere con la testata fondata da Indro Montanelli due anni dopo l’uscita del film). Siamo nel 1972, all’inizio degli anni di piombo. La corruzione degli organi statali, la disoccupazione alle stelle, la mistificazione della stampa e la violenza della polizia nei confronti degli studenti manifestanti hanno raggiunto ormai un livello mai visto prima. Ragion per cui, l’8 marzo, un gruppo di ragazzi che manifesta contro lo Stato e la polizia per l’uccisione di un “compagno”, tende un agguato alla sede del “Giornale”, noto quotidiano di destra. I danni sono risibili, ma il “Giornale” ne approfitta per screditare la sinistra agli occhi della pubblica opinione.
Nella redazione senza una donna, di questo giornale reazionario quanto basta (in linea con un potere che provava a tenere buone le anime delle opposte tendenze), lavora Giancarlo Bizanti un demoniaco e cinico Gian Maria Volontè, che difende i valori di una borghesia (termine in voga ai tempi) perbenista, ipocrita e soprattutto mediocre. Il suo odio verso ogni contestazione e soprattutto nei confronti dei comunisti potrà trovare adeguato sfogo quando l’omicidio di una studentessa di buona famiglia scuote gli animi dell’opinione pubblica. La possibilità che l’omicida sia Mario, un rivoluzionario comunista, lo spinge a fabbricare il colpevole con la connivenza della Polizia. L’astuto Bizanti strumentalizza una solitaria anarchica, Rita Zigai (Laura Betti), perdutamente innamorata del giovane Mario. Il colpevole è pronto per l’uso e tutto serve a seppellire la verità che diventa un fatto personale che resterà nella gestione esclusiva dello sprezzante giornalista che avrà raggiunto lo scopo di demonizzare la protesta.
Nell’ultima scena del film, Bizanti e Montelli (il padrone del quotidiano) in un colloquio privato, decidono di insabbiare la notizia del vero assassino di Maria Grazia almeno fino a quando saranno finite le elezioni, in modo da continuare ad attaccare in modo arbitrario la sinistra extraparlamentare con la finta accusa rivolta a Boni. Gli ultimi secondi del film vedono un rigagnolo di acqua pieno di spazzatura che avanza lento all’interno del Naviglio, fino a riempirlo interamente: è la metafora del marcio che sta avanzando all’interno della vita politica, della stampa, delle istituzioni italiane negli anni Settanta.
In quegli anni si parlava di manipolazione dell’informazione e spettava alla cosiddetta controinformazione reagire con una capillare rete di diffusione di informazioni differenti, garanzia di una certa verità, che era tanto capillare da trovarsi spesso in una strada senza uscita. Nel senso che non riusciva a raggiungere nessuno o al più quelli già sensibili ai temi.
L’intento critico di Sbatti il Mostro in Prima Pagina è ovviamente fortissimo. Sin dal titolo si comprende quale sia l’accusa che Bellocchio fa alla stampa schierata dalla parte della fazione conservatrice: ovvero, l’accusa di mistificazione della realtà e di manipolazione delle notizie al servizio della fazione che supportano, allo scopo di spostare i voti delle masse da una parte all’altra dell’elettorato. Il “mostro” da sbattere in prima pagina non è nessuno in particolare, ma semplicemente il capro espiatorio che in un dato momento appare utile per raggiungere tale scopo di mistificazione: nel film, il “mostro” da sbattere in prima pagina diventa guarda caso Mario Boni, esponente di spicco della sinistra extraparlamentare, accusato dal nulla di omicidio.
Questo film, nonostante gli anni, costituisce un’utile riflessione sull’utilizzo della stampa in rapporto ad ogni reale o presunta verità. All’epoca, quando l’informazione era detenuta in poche e controllate mani, era molto più semplice tacere la verità e fornire una compiacente versione dei fatti o peggio determinarne il corso. Oggi, con l’avvento della rete e di un giornalismo sicuramente meno compiacente, tutto è mutato, l’emergere della verità è più frequente, ma resta comunque il problema. La rete non ci mette del tutto al riparo da una mistificazione del vero e da una sua artificiosa costruzione, anzi …
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