Londra, 1884. Joseph Carey Merrick (chiamato John dal suo impresario) è un ragazzo affetto dal morbo di Von Recklinghausen (o Sindrome di Proteo), una rara malattia che comporta deformazioni ossee e genetiche, tali da renderlo completamente sfigurato (nel film si dice anche che sua madre venne orrendamente calpestata da un elefante, durante la gravidanza). Un crudele impresario lo obbliga ad esibirsi dietro un tendone da circo, facendo pagare il biglietto ai passanti, tra urla e commenti di disprezzo. E’ il chirurgo, dottor Frederick Treves, a salvarlo dagli stenti e da una morte sicura, facendolo ricoverare al Royal London Hospital, dove troverà asilo e un posto sicuro. In un primo momento, il dottore crede che il giovane sia mentalmente ritardato; in realtà, istruendolo, scopre che è un essere umano estremamente intelligente, ricco di sensibilità ed immaginazione. John Merrick inizia a ricevere le visite di un’importante attrice di teatro e di esponenti della nobiltà vittoriana. Molto spesso si tratta solo di individui curiosi e inopportuni; il dottor Treves è tormentato dalle motivazioni che l’hanno spinto ad occuparsi di John: l’ha fatto per il bene del ragazzo o per studio e per una sua notorietà personale?
In ogni caso, riesce ad offrire a John la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa, per quanto breve possa essere. Una sera, infatti, dopo aver assistito ad una prima teatrale, il ragazzo torna nella sua camera ricca di disegni, libri e fotografie e si addormenta, per la prima volta e per sempre, con il capo sul cuscino. A causa della sua malattia, infatti, aveva sempre dovuto dormire accovacciato.
La triste e malinconica parabola di The Elephant Man commuove e ci fa riflettere su quanto sia potente la minaccia portata dai pregiudizi e dall’ignoranza. “Gli uomini hanno paura di ciò che non capiscono“, disse lo stesso Joseph Merrick più di un secolo fa, ma ancora oggi ci troviamo ogni giorno di fronte a soprusi, cattiverie e violenze scaturite da caratteristiche fisiche o caratteriali che alcune persone misere non riescono ad accettare. David Lynch non indora la pillola, mostrando tutta la crudeltà e l’ipocrisia a cui possono arrivare le persone verso ciò che è diverso dal loro piccolo e ottuso mondo. A tal proposito è esemplare una delle scene più strazianti di tutto il film, in cui assistiamo all’ira e ai soprusi di una folla di persone verso Merrick, che reagisce sfogandosi con la frase “Io non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere umano!“, che racchiude in sé l’intero senso della pellicola.
The Elephant Man ci ammonisce per i nostri pregiudizi e ci spinge a cercare sempre di guardare oltre le apparenze, raccontandoci una storia in cui chiunque può riconoscersi, perché ognuno di noi almeno una volta è stato escluso o messo ai margini per un superficiale difetto esteriore o per il colore della pelle.
Quanto ancora si debba tutelare la diversità come valore imprescindibile nella società, tenendo di conto dei limiti antropologici del singolo, non sempre adattabili, cercando di evitare il conformismo a tutti costi.
Un film che è un cazzotto in faccia alla società borghese, ma anche un commovente e meraviglioso inno alla vita e alla dignità e ricchezza nella totalità della diversità umana; dove Lynch, abbatte tutte le barriere e i pregiudizi che si possono creare quando si entra in contatto con il “diverso”. Attraverso una storia molto particolare e comunque dai canoni leggermente horror, riesce a trattare un tema che ancora oggi affligge l’umanità: il razzismo.
The Elephant Man è un’opera commovente, perché è brutale e malinconica allo stesso tempo, come se la telecamera riuscisse ad accarezzarci nonostante quelle pugnalate che ci vengono inferte da certe immagini intrise di atroce amarezza, è un’opera che ancora oggi andrebbe proiettata ovunque come monito a chi giudica fermandosi alle apparenze.
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