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giovedì 6 giugno 2019

Il Gioco come atto rivoluzionario

Dopo due secoli di negazione attraverso una continua idealizzazione della produzione, le funzioni sociali primitive del gioco si presentano solo più come sopravvivenze imbastardite frammiste a forme inferiori che deviano direttamente dalle necessità dell’organizzazione attuale di questa produzione. Nello stesso tempo, in rapporto dello sviluppo stesso delle forze produttive, compaiono delle tendenze progressive del gioco. La nuova fase di affermazione del gioco sembra debba caratterizzarsi con la scomparsa di ogni elemento competitivo. Il problema di vincere o di perdere, finora quasi inseparabile dalla attività ludica, appare legato a tutte le altre manifestazioni della tensione tra individui per l’appropriazione dei beni. Il sentimento dell’importanza del vincere nel gioco, che si tratti di soddisfazioni concrete o più spesso illusorie, è il prodotto avvelenato di una cattiva società. Questo sentimento è ovviamente sfruttato da tutte le forze conservatrici che se ne servono per mascherare la monotonia e l’atrocità delle condizioni di vita che impongono. Basta pensare a tutte le rivendicazioni sviate per mezzo dello sport agonistico. Non solo le folle si identificano con giocatori professionisti o con certe squadre, che assumono lo stesso ruolo mitico delle stelle del cinema che simulano la vita e degli uomini dello stato che decidono in vece loro, ma anche il succedersi senza fine dei risultati di queste competizioni non cessa di appassionare chi vi assiste. La partecipazione diretta a un gioco, anche preso tra quelli che richiedono un certo esercizio intellettuale, è altrettanto poco interessante appena si tratta di accettare una competizione, fine a se stessa, nel quadro di regole fisse.
L’elemento di competizione dovrà scomparire a vantaggio di una concezione davvero più collettiva del gioco: la creazione comune degli ambienti ludici scelti. La distinzione centrale che bisogna superare è quella che si stabilisce tra il gioco e la vita corrente, in quanto il gioco viene considerato un’eccezione isolata e provvisoria. La vita corrente, condizionata finora dal problema del sostentamento, può essere dominata razionalmente e il gioco, che rompe radicalmente con un tempo e uno spazio ludico delimitato, deve invadere l’intera vita. In questa prospettiva storica il gioco non appare affatto al di fuori dell’etica, del problema del senso della vita. L’unica riuscita che si possa concepire nel gioco è la riuscita immediata sul proprio ambiente e l’aumento costante dei propri poteri. Mentre, nella sua attuale coesistenza con i residui di questa fase di declino, il gioco non può liberarsi completamente da un aspetto competitivo, il suo scopo deve essere perlomeno quello di provocare delle condizioni favorevoli per vivere direttamente. In questo senso è ancora lotta e rappresentazione: lotta per una vita a misura del desiderio, rappresentazione concreta di una simile vita.

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