Translate

giovedì 27 giugno 2019

Psichiatria e fascismo

Per molto tempo, anche nell'ambito delle ricerche sulla repressione del dissenso e le persecuzioni subite dagli oppositori del regime fascista, il ricorso sistematico alla psichiatria e alla reclusione manicomiale è stato un aspetto storiografico sottaciuto e sottostimato, come se certi “metodi” fossero una prerogativa di altri sistemi totalitari, quali quello nazista o quello staliniano. D'altronde, le stesse vittime, una volta tornate alla cosiddetta normalità dopo la Liberazione, il più delle volte auto-censurarono il racconto delle loro vicissitudini attraverso l'arcipelago manicomiale, un po' per evadere anche dal ricordo opprimente di tale esperienza, un po' perché comunque probabilmente in molti vi era il recondito timore di essere ancora presi per pazzi.
Eppure è proprio durante il ventennio fascista che si registra l'incremento dei cosiddetti “manicomi criminali”, con la costruzione di nuove strutture e di nuove sezioni giudiziarie presso istituti “civili” già esistenti, nonché l'aumento – davvero esponenziale – del numero degli “alienati” internati a seguito di sentenza penale oppure in applicazione della legge n. 36 nel 1904 (rimasta, incredibilmente, in vigore sino al 1978!) che prevedeva e regolava l'internamento negli ospedali psichiatrici di quanti, per presunta pericolosità sociale o pubblico scandalo, vedevano così le proprie vite in totale balia del giudizio - e del pregiudizio - di pretori, procuratori, prefetti, questori, podestà e direttori di manicomi.
Nonostante che tale legge fosse stata emanata dal governo del liberale Giolitti, l'individuo vedeva annullata ogni tutela delle proprie libertà ed era consegnato inerme all'arbitrio statale: essa risultava a tutti gli effetti un dispositivo legale volto a togliere dalla circolazione i soggetti “devianti”; infatti, la loro “colpa” e la loro “malattia” discendeva generalmente da una supposta pericolosità legata all'essere improduttivi oppure ad eventuali turbamenti dell'ordine pubblico.
Il fascismo, perciò, accolse pienamente questo impianto ideologico e, soprattutto dal 1927, lo inserì nel suo stato di polizia, tanto che «fissò nel Testo unico delle leggi d Ps (prima del 1926 e poi del 1931) le regole da attivare per il controllo dei degenerati e delle classi pericolose, oltre che dell'alienazione mentale», mirando a colpire ugualmente sospetti oppositori politici, omosessuali, oziosi, nomadi, alcolisti e altri soggetti marginali.
Particolare non secondario, proprio in pieno fascismo, nel 1938 lo psichiatra Ugo Cerletti (tessera n. 0694914 del Pnf) assunse notorietà mondiale per «l'italianissima invenzione» dell'elettroshock. Ad essere colpiti, temporaneamente o in maniera definitiva, da misure di costrizione manicomiale furono circa un migliaio di uomini e donne, di varia tendenza o appartenenza politica, ritenuti pericolosi per la dittatura di Mussolini: se il termine ha un senso, nella stragrande maggioranza dei casi non si trattava di «malati di mente», ma di «avversi al regime»; in non pochi casi, invece, i disturbi psichici erano diretta conseguenza delle violenze fisiche e delle torture mentali a cui furono sottoposti nel corso di spedizioni punitive, in carcere, al confino o dentro i non-luoghi manicomiali.
Per chiudere è possibile riscontrare come i funzionari di polizia ricorressero alle diagnosi pseudo-mediche e alle categorie lombrosiane, mentre gli psichiatri accettavano – con rarissime eccezioni – di svolgere un ruolo di inquisitori politici, così come le figure degli infermieri e dei secondini tendevano a confondersi dietro sbarre che, purtroppo, non appartengono ancora al passato. Discorso analogo per quanto riguarda l'esile confine che separava il trattamento punitivo da quello terapeutico, con strumenti e pratiche degne dei supplizi del Sant'Uffizio.

Nessun commento:

Posta un commento