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giovedì 10 settembre 2020

Judith Malina si racconta

Sono anarchica, sono pacifista, sono ebrea. Per me queste identità sono, più o meno, compatibili: mio padre era un rabbino tedesco e mia madre una studentessa di teatro, grande ammiratrice del grande regista Erwin Piscator. Nel momento in cui lei ha incontrato questo giovane rabbino idealista se ne è innamorata e ha deciso di abbandonare la sua carriera in teatro; si sono sposati con l’accordo di destinare a una figlia la carriera a cui aveva rinunciato la madre: io ero quindi destinata a questa carriera… anche se non sono sicura che i miei genitori sarebbero stati contenti della strada che ho scelto. Dopo i terribili avvenimenti accaduti in Germania sono andati a vivere a New York quando io avevo due anni; anche Piscator dopo un po’ è andato a New York per aprire una scuola, proprio nel momento in cui ero pronta per studiare con lui: è in questo periodo che sono diventata pacifista perché - conosciuto il nazismo, da cui siamo scappati essendo in pericolo - già da molto piccola decisi di diventare l’opposto dei nazi, di prendere la strada opposta. Mio padre, come sempre succede in famiglia in questi casi, è rimasto orripilato dalla mia scelta: quando gli ho detto: “Sono diventata pacifista, è importante che non odiamo i nazisti”, lui è rimasto orripilato e da quel giorno… sono stata nei guai. Sono anche anarchica, essendo pacifista, perché – come tutti qui sanno – non è possibile una forma di organizzazione sociale senza forza, senza punizione, oltre quella indicata dalla strada anarchica; io ho provato, nel mio lavoro, a seguire sempre la visione anarchica nell’organizzazione della vita, e la strada pacifista per raggiungere un più alto livello nei rapporti umani. Quando finalmente sono andata alla scuola di Piscator, lui ci ha chiesto un impegno serio: ha sempre sostenuto l’idea di un teatro politico, l’idea di dire: “Noi non abbiamo il diritto di sentirci ‘al centro’, non possiamo dire ‘Zitto, parlo io, ascoltami, sono interessante, posso farti ridere o piangere’”; questo è un egoismo orribile: se non abbiamo qualcosa da dire non possiamo dire agli altri: “Zitto, ascolta me”… se non abbiamo veramente qualcosa in cui siamo impegnati. Allora, quando cinquant’anni fa Julian Beck e io abbiamo formato il Living Theatre, abbiamo deciso di provare a creare un gruppo di affinità, e ancora oggi siamo tutti anarchici, tutti pacifisti, quasi tutti vegetariani… non tutti ebrei, ma in gran parte anche questo; l’essere ebrei non è una necessità per entrare nel Living, ma certamente questo dà una base morale: siamo ispirati da molti nostri compagni e artisti di origine ebraica, penso a Eric Gutkind o Paul Goodman, grandi fonti di ispirazione anarchica ed ebraica.Noi abbiamo portato in scena spettacoli come La grotta a Machpelah, La giovane di Cipro ecc., lavori che ci hanno dato modo di parlare della possibilità di un mondo anarchico, di una società anarchica: tutti vogliamo libertà e pace, ma se parliamo di anarchismo e pacifismo questo fa paura. Nel Living per cinquant’anni, senza sosta, abbiamo fatto – e continuiamo a fare – spettacoli per parlare della possibilità di lottare per il mondo che vogliamo, e non per vari livelli di compromesso: questo è difficile da esprimere in un mondo pieno di paura della libertà, di guerre, punizioni, militarismo, concorrenza delle multinazionali… questa è oppressione sociale, per cui è difficile dire: “Andiamo direttamente verso ciò che vogliamo”; nei nostri spettacoli, da Paradise now ai più recenti che ha scritto Hanon Reznikov (Anarchia, Utopia), vogliamo dare la dimostrazione di come ciò sia possibile. Tramite il rapporto con il pubblico facciamo in modo di non avere due classi di persone in teatro, quelli che parlano e quelli che non parlano, vogliamo unificare il pubblico e gli attori, vogliamo unificare tutto.



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