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giovedì 25 febbraio 2021

Bakunin e i poeti: Dmitrij Vladimirovič Venevitinov

Il 28 febbraio 1936, Michele Bakunin scrive: «Credere, non nel Dio che si prega nelle chiese, ma in quello che parla al poeta». Quali furono dunque questi poeti di cui Bakunin ascoltò la voce? Puskin, Goethe, Schiller, Byron, Chénier, e altri hanno colpito la sua attenzione e per un certo periodo si sono insinuati nel suo cuore e nel suo spirito. Ma quelli che hanno avuto un'influenza profonda sull'orientamento della sua vita, sono due poeti russi: Vénévitinov  e Stankevitch, e un poeta tedesco, Herwegh. Quest'ultimo rifiutò la propria nazionalità per diventare cittadino svizzero, o elvetico come  si diceva allora, perché il suo paese lo aveva deluso. L'incontro di Bakunin con questi tre uomini coincide con le tre grandi fasi che faranno di un giovane nobile russo un rivoluzionario  intransigente. Quando Bakunin s'interessa all'opera di Vénévitinov, sottufficiale artigliere nell'esercito russo. A Pietroburgo ha fatto l'esperienza negativa della vita mondana presso la propria famiglia e tramite i suoi amici è  ricevuto alla corte zarista. Ha anche avuto un colpo di  fulmine per sua cugina Maria Voeikova. La vita militare non gli piace. Benché si dica pronto a difendere il proprio paese, se ce ne  fosse bisogno, egli ha già considerato con suo padre la possibilità di essere trasferito a Tver, vicino alla residenza della famiglia. A questo punto della sua vita, ancora ventenne, egli attende di essere, per così dire, toccato dalla grazia. Con suo cugino  Sergei  Muraev, si è messo a perfezionare le proprie conoscenze di storia russa, geografia russa e anche di lingua russa, e viene iniziato nello  studio di una scienza all'epoca nuova: la statistica. Non ha superato  l'esame per passare ufficiale di prima classe e, dopo un breve soggiorno presso la famiglia, viene inviato dai suoi superiori in una  semplice  brigata, a Wilna. Di là parte per delle manovre, dal momento che si parla di guerra. In questa circostanza, avrebbe anche potuto essere trasferito alla frontiera prussiano-austriaca. Michele Bakunin scrive alla sua famiglia (lettera del 19 dicembre 1834) che ha deciso di studiare la tattica militare e la costruzione delle fortificazioni. Non c'è — precisa — dell'eroismo in me, ma sarei contento di dare la mia vita per il bene e l'onore della mia patria. Nell'arco di pochi giorni il suo mondo sta cambiando. Un compagno che abita a Wilna, ma che studia all'Università di Mosca, gli dà da leggere l'opera di un poeta da poco scomparso: Dmitri Vénévitinov, definito allora in Russia il «Divino giovane uomo ». Michele scrive alla propria famiglia di essere stato profondamente colpito da questa lettura. Dmitrij Vénévitinov  è nato a Mosca nel 1805. Lui e Puskin hanno un antenato comune, ma Dmitrij discende dalla schiatta che si è unita al principe Obolenski. È un ragazzo dotato, un bambino prodigio, che a tredici anni ha tradotto il Prometeo di Eschilo e a quattordici inizia la sua opera personale: dei poemi, delle critiche, delle riflessioni sulla filosofia. Egli reclama il rinnovamento della Russia tramite la libertà di espressione e la libertà di ricerca, tanto nella scienza quanto nelle arti. Il solo consiglio che si può dare — egli dice — a chi vuole essere utile alla patria o all'umanità, è di esigere la libertà di pensiero. In questa prospettiva ha scritto un poema: Patria. Denuncia la miseria e la sporcizia che si distendono sotto lo sguardo tranquillo del ricco al riparo nella propria abitazione. Su tali cose, questi schiocca la frusta dei padroni. Questi versi sono così densi di verità che la loro  pubblicazione sarà vietata fino all'anno 1924. Molto prima che scoppi la rivolta dei decabristi, Vénévitinov è legato a quelli che la provocano. Dopo la loro condanna parteggia ancora per loro. Il governo lo richiama a Pietroburgo, la polizia politica lo sorveglia. Lo  si arresta, losi rilascia. Egli firma allora un contratto di affitto e torna malato da una visita al padrone di casa. Si ristabilisce. Passano alcune settimane, prende parte  ad una festa da ballo presso lo stesso padrone di casa, ricade di nuovo malato e muore dopo pochi giorni. L'eliminazione degli importuni avviene in modo sottile. Il poeta ha 22 anni. 



                                                              i


IL MONDO FUTURO

Il mondo futuro è proprio adesso ed è fatto di Telemedicina, dad, telelavoro, e-commerce, tele-polizia, conferenze immateriali. Quando il distanziamento verrà attenuato difficilmente si allenterà il controllo dei nostri corpi. Che si tratti dell’app IMMUNI, dell’intelligenza artificiale applicata ai dati dei nostri smartphone, o l’uso del riconoscimento facciale , - e queste sono solo la punta dell’iceberg - tutta la nostra vita è chiamata a passare sotto il controllo delle nuove tecnologie. Il post-capitalismo connesso, oltre a voler rappresentare il motore dell’economia (o se si preferisce del mondo), si sta sviluppando per garantire la nostra sopravvivenza tecnologicamente assistita in ambienti patogeni. Dalla città intelligente al pianeta intelligente, questo capitalismo tecnologico si sta sviluppando per sopravvivere ai suoi misfatti ecologici attraverso la razionalizzazione poliziesca delle popolazioni. Se non bastasse un transumanesimo green sta fiorendo nei laboratori di ricerca di molti Stati e promette di modificare geneticamente la specie umana nel tentativo di darle qualche chance di sopravvivenza. A breve molte occupazioni non saranno più disponibili per gli umani che, soppiantati dai robot, dipenderanno da un qualche reddito non più frutto della loro attività, ma della benevolenza dello Stato. Già ora la sopravvivenza nella precarietà è realtà per milioni di persone e in prospettiva ben pochi prevedono che le cose potranno migliorare se si procede su questa strada. Anzi. Questo post-capitalismo, piuttosto che il traguardo raggiunto dell’abbondanza, assomiglia a una gestione assistita dal computer della scarsità di aria pulita, acqua, materie prime, spazio vitale, lavoro, istruzione, salute. L’umanità sta affrontando la prospettiva di un futuro inimmaginabilmente cupo e abbiamo urgente bisogno di sollevarci e gridare “NO!”. Non possiamo permettere a noi stessi e alle generazioni a venire, di essere violentemente costretti a vite di miserabile sottomissione, privati della nostra libertà e individualità, isolati gli uni dagli altri, controllati e sfruttati in ogni minuto delle nostre esistenze servili da un’élite tecnocratica onnipotente. 


Il sentiero dell’anarchia

Ci muoviamo in tempi strani, dove le strade della libertà non sono asfaltate. Scegliere dove camminare senza bussole non è affatto semplice ma guardandosi intorno senza voltarsi indietro la pista dell’anarchismo è in primo luogo, una precisa scelta di campo. Il movimento libertario, nella sua molteplicità di approcci e tendenze, offre disponibilità al confronto e riconosce come compagni di lotta anche chi non condivide le idee anarchiche, questo non significa affatto che sia un ombrello sotto cui porre qualsiasi interpretazione personale dell’anarchia. Si può essere individualisti o comunisti, organizzatori o antiorganizzatori, educazionisti  o insurrezionalisti, ma comunque certi presupposti sono fuori discussione perché definiscono l’anarchismo stesso. Il rifiuto coerente di ogni potere (politico, militare, religioso …) e di ogni sfruttamento (sia questo capitalista o statale), di tutte le discriminazioni (razziste, di genere …), delle diverse forme di coercizione (polizie, leggi, carceri, lager, sedie elettriche, torture, repressione, proibizionismo …) non sono un di più, bensì punti fermi di un pensiero davvero alternativo e antagonista al dominio. Nessuno/a è obbligato a condividerli, ma sia chiaro che chi non vi si riconosce si colloca fuori dall’anarchismo. Un metodo incentrato sull’auto-emancipazione, attraverso l’impegno per l’autoformazione individuale, l’azione diretta e l’autogestione collettiva. Perché la liberazione è rivoluzione quotidiana, a partire dal proprio intessere relazioni e vivere in un mondo che certo non è il migliore possibile. La libertà non ammette limitazioni da parte dei suoi nemici. Fuori da questi paletti c’è l’autoritarismo comunque mascherato o l’illusione riformista, ossia la convinzione di poter pacificamente umanizzare l’inumano. D’altra parte la libertà non è obbligatoria, così come nessuna/o è tenuto ad essere sovversivo. 


giovedì 18 febbraio 2021

Un epoca rivoluzionaria, Mikhail Bakunin – parte terza


Ma anche gli zar muoiono. Quando Nicola I scompare, nel 1855, l'ascesa al trono di  Alessandro II fa  sperare in  un regime più tollerante. La madre di Mikhail  torna alla carica. Il prigioniero si fa  promettere da un fratello che gli porterà il  veleno se la supplica non avrà successo. Ma non ci fu bisogno del veleno: dopo 6 anni di fortezza Bakunin venne liberato, a patto che se ne andasse in esilio per sempre. Per un tipo come Bakunin la  libertà è una medicina miracolosa. Che importa se lo scorbuto ha fatto cadere tutti i denti, se la dieta zarista ha fiaccato le ossa? La fede non crolla. Un lontano congiunto di idee decabriste, governatore della Siberia orientale, gli procurò un lavoro in una società commerciale che  gli permetteva di viaggiare. Dopo quattro anni Bakunin era uccel di bosco. Il «romanzo» aveva ripreso a funzionare nell'esistenza del rivoluzionario. La fantasia ha la meglio sulle distanze immense, sull'occhiuta polizia. Bakunin convince nella primavera del 1861 un mercante siberiano a pagargli le spese di viaggio fino alle foci  del fiume  Amur. Si era fatto fare  una lettera per i comandanti dei battelli in navigazione sul fiume. E qui Bakunin realizzò un altro dei suoi capolavori: riuscì a convincere capitani e funzionari, e di  battello in  battello raggiunse Yokohama. Di là un piroscafo americano lo  portò a San Francisco. Il fascino personale del rivoluzionario continuava a esercitare la sua  influenza su chiunque. Un sacerdote inglese con cui  aveva fatto amicizia a bordo gli prestò trecento dollari. Ed ecco  Bakunin attraversare Panama e raggiungere New York. A New York scrisse a Aleksandr Herzen, che si trovava a Londra, pregandolo di inviargli del denaro. Alla fine di  novembre Mikhail raggiungeva Londra. Con una frase felice Herzen disse che Bakunin tornò in Europa come i decabristi reduci dall'eslio, più giovani   dopo la galera che i giovani rimasti a casa a subire l'oppressione zarista. Aggiunge Herzen che sofferenze e prigionia sembrano avere preservato anziché distrutto Bakunin. In effetti, egli non  aveva vissuto,  come  i rivoluzionari occidentali, la reazione internazionale degli anni 1850-1860.  Essa aveva prostrato gli esuli di Londra, mentre negli occhi di Bakunin erano rimaste le rivolte del fiammeggiante biennio 1848-1849. Non appena era scoppiata l'insurrezione polacca (1863), egli era stato in grado di organizzare una legione russa (per l'ostilità di vari elementi non poté portare a termine l'impresa). Sono gli anni in cui la polemica con Marx per la guida dell'Internazionale sta emergendo ma non è ancora scoppiata. Bakunin accorre in Svezia, Italia e Svizzera, ovunque una causa rivoluzionaria si profili. Ma è nell'Italia meridionale che il suo cuore ardente trova un ambiente congeniale. E ormai maturato dai giorni in cui aveva voluto soccorrere i polacchi pur di mettere in imbarazzo la Russia (i polacchi nazionalisti sono altrettanto reazionari dello zar). Ora Bakunin è convinto che la rivoluzione deve essere sociale, e che per essere sociale deve essere internazionale. Nel 1867 fa inserire nel programma per gli «Stati Uniti  d'Europa» della Lega per la Pace e la Libertà (organizzazione di intellettuali borghesi che cerca di strumentalizzare) un paragrafo a sostegno della liberazione delle classi operaie e   per l'eliminazione della condizione sociale più sfruttata e emarginata: il proletariato.




Le Grandi Montagne di Zucchero Candito

Una sera al calar del sole 

E quando il fuoco della giungla ardeva, 

Lungo i binari giunse un vagabondo 

E disse: «Gente, io non ritorno indietro, 

Sono diretto in un Paese lontano 

Vicino alle fontane di cristallo, 

Quindi vieni con me, andremo a visitare 

Le Grandi Montagne di Zucchero Candito. 


Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito, 

C'è un posto bello e felice, 

Dove cose buone da mangiare crescono sui cespugli 

E si dorme fuori ogni notte. 

Dove i vagoni merci sono vuoti 

E il sole splende ogni giorno 

Sugli uccelli e sulle api e sugli alberi di sigarette 

E la limonata sgorga dove canta la cutrettola, 

Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito. 


Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito 

Tutti gli sbirri hanno le gambe di legno, 

Tutti i bulldogs hanno zanne di gomma 

E le galline fanno uova alla coque. 

Gli alberi degli agricoltori son pieni di frutta 

E i granai sono colmi di paglia. 

Oh, io andrò dove non c'è neve, 

Dove la pioggia non cade, il vento non soffia, 

Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito. 


Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito, 

Non ti cambi mai le calze 

E piccoli rivoli di alcool 

Scendono colando dalle rocce. 

Là, i frenatori devono togliersi il berretto 

E i ferrovieri sono ciechi. 

C'è un lago di stufato e anche di whisky, 

Ci puoi remare tutto attorno su una grande canoa, 

Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito. 


Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito, 

Tutte le prigioni sono di latta 

E puoi uscirne 

Appena ti sbattono dentro. 

Là, non ci sono pale col manico corto 

Né accette, seghe o zappe. 

Io me ne andrò a stare dove si dorme tutto il giorno, 

Dove impiccano il turco che ha inventato il lavoro, 

Sulle Grandi Montagne di Zucchero Candito.

(La letteratura anonima degli emarginati in tutte le epoche ha sempre incluso canzoni e leggende di una società senza fame né oppressione. Gli schiavi del mondo antico rimpiangevano una mitica Età Aurea di uguaglianza ed i neri americani del XIX secolo riponevano in una Vita Futura il loro sogno di una pausa dall'incessante fatica che non potevano sperare in questa. Molto del folclore utopistico è di grande bellezza ed amarezza, ma non c'è nulla di ultraterreno in questa divertente canzone degli «hobos» americani, o lavoratori migratori, di questo secolo. L'hobo non vuol saperne di governi o di sistemi giuridici: egli conosce ciò che lui vuole nella sua sfacciatamente materialistica «repubblica ideale».) 


Diventare il produttore del film della propria vita

Occorre di mettersi di taglio alla costellazione della miseria delle democrazie formali. Infrangere lo spettacolo delle ideologie nelle teste di legno della società opulenta. Bisogna tenere sempre presente che le istituzioni non sono sorte per caso, ma per compensare la debolezza di chi vi partecipa. E in questo assolvono una funzione storica. Ma ogni istituzione si fonda sul sacrificio dei suoi membri, si nutre di vita umana. Si tratta quindi di porgere un invito a mordere, incamminarsi verso i giorni della gioia dove ogni individuo potrà sfoderare il proprio sogno nei colpi di ritorno contro i potentati che tengono le briglie e i giochi del proletariato arreso. Occorre muoversi nei percorsi accidentati del contrasto e andare a produrre un disordine linguistico/figurale dell’ordine apparente. 

Diventare il produttore del film della propria vita. 

Il rifiuto di essere schiavo è ciò che veramente cambia il mondo. 

Né dei né miti. La persona che si ribella e che poi tende al rivoluzionamento lo fa, come causa prima, in risposta ad esigenze ed emozioni in origine del tutto personali e di stretta contingenza alla sua condizione. Solo in un successivo, secondo tempo le sue medesime esigenze ed emozioni, incontrandosi, integrandosi, completandosi con analoghe situazioni reclamanti altre necessità e scaturenti da altrettante motivazioni, daranno luogo alla collettivizzazione dell’atto, che da rivoltoso si tramuterà così in rivoluzionario. È un discorso che si sviluppa contro il certo, l’ideale, l’alchimia della politica e il terrorismo della Borsa. Il gesto estremo, a volte disperato dei ribelli, coglie nel coraggio di minoranze bastonate, carcerate, uccise, le tracce di una differente esistenza. La rivolta si apre al rischio di vivere pericolosamente il rapporto tra idea e azione.


giovedì 11 febbraio 2021

Un epoca rivoluzionaria, Mikhail Bakunin – parte seconda

Il  trattamento che ricevette qui avrebbe distrutto una fibra meno solida della sua. Gli vennero negati  ogni assistenza legale e il permesso di scrivere e ricevere lettere. Poteva disporre soltanto di mezz'ora di “aria” al giorno, durante la quale passeggiava su e giù per il corridoio guardato a vista da sei uomini armati di fucile. Non poteva neppure raggiungere il cortile per l'aria, perché le autorità temevano che con la sua  oratoria ormai leggendaria egli potesse convincere gli animi e suscitare sommosse. Ma neppure queste inumane persecuzioni tranquillizzano le autorità. Dopo nove mesi di questo trattamento si sparge la voce che gli amici del rivoluzionario hanno un piano per liberarlo. Di conseguenza Bakunin viene trasferito alla fortezza di Olmiitz  e incatenato al muro. Due mesi dopo, un tribunale militare Io condanna per alto tradimento. Ancora una volta il potere cerca di disfarsi di Mikhail Bakunin: la condanna è all'impiccagione. Ma ancora una volta avviene qualcosa che  rimanda l'appuntamento con la morte. Bakunin era un ufficiale russo: e lo zar lo richiese perché voleva ammazzarlo lui. Gli austriaci lo accompagnarono alla frontiera e lo  consegnarono ai russi, che lo caricarono di catene ancora più pesanti. L'eroe giovanile e romantico si avvia a diventare un martire. Lo zar lo fece rinchiudere nella fortezza Pietro e Paolo di Pietrogrado, e la tortura gli estorse una di quelle «confessioni» di cui sono specialiste le polizie segrete e di cui il potere si serve per umiliare gli avversari politici. Verso il 1840, Bakunin aveva scoperto il socialismo e l'anarchismo francesi, all'incirca un paio d'anni prima di Marx; e come Marx, a contatto delle idee francesi aveva ripudiato l'ideologia tedesca. Ora vuole «la Chiesa universale e autenticamente democratica della  libertà», paradigma dell'aspirazione rivoluzionaria del suo secolo. Ma dopo l'isolamento, la catena, la tortura, la galera, tutto ciò, insomma, che gli ha fatto cadere i capelli e i denti, ha un solo problema: riacquistare la libertà personale per continuare la lotta. Non vuole più marcire nell'umida gabbia che non gli consente neppure di stare diritto in piedi. La sua confessione allo zar Nicola I ha dunque un carattere strumentale: ingannare il tiranno, uscire di galera. Ma Bakunin non è un uomo capace di mentire: in lui anche il calcolo, il cinismo politico si colorano di una patetica vena di autenticità, come quando ammette che aveva potuto credere alla rivoluzione finale «solo con uno sforzo sovrannaturale e doloroso, soffocando a forza la  voce intima che mi  sussurrava l'assurdità delle mie speranze». «Ora auspico una  dittatura illuminata ma impietosa, esercitata per il popolo.»
Davanti allo zar  Bakunin evoca il sogno di un impero slavo rivoluzionario. Il tono è ossequiente in modo palese, ostentato. Ma si tratta solo di doppio gioco per ingannare lo zar e riavere quella libertà che serve al rivoluzionario per ordire la caduta dello zarismo? Questa è la molla contingente e forse la fondamentale, ma Bakunin è un russo, e i suoi modelli politici sono quelli panslavi ereditati dalla tradizione, e rafforzati dalla forza di convincimento della galera e della tortura. Quando la sorella più amata andò a trovarlo, Bakunin le fece passare un  biglietto disperato: «Non potrai mai capire che cosa significa sentirsi sepolto vivo, dire a se stesso a  ogni momento del giorno e della notte: sono uno schiavo, sono annientato, ridotto all'impotenza a vita, udire nella propria cella i prodromi della prossima lotta che deciderà gli interessi più vitali del genere umano ed essere forzato a rimanere inattivo e silenzioso, essere ricco di idee, alcune delle quali, almeno, potrebbero essere belle, e non poterne attuare nemmeno una; sentire l'amore in petto, si, l'amore, a dispetto della pietrificazione esteriore, e non poterlo spendere per niente e per nessuno, sentirsi pieno di devozione e di eroismo verso una causa sacra e vedere il proprio entusiasmo che s'infrange contro quattro mura nude, uniche mie confidenti». Il doppio gioco, le suppliche della famiglia Bakunin non servirono. Lo zar aveva deciso: il rivoluzionario doveva morire. 
 



WHO WILL ACCUSE? – Robert Wyatt


Chi accuserà? 

Questa vita è desolata 

e fredda 

e io sono vecchio 

e stanco di verità. 

Potremo mai 

farci la nostra storia 

in questo gelido 

paese? 

Chi ci accuserà 

se scegliamo 

di sognare 

di prenderci un mondo 

già fatto 

ove sedere davanti a 

un fuoco che scalda 

e non aver da chiedere 

chi l'ha costruito, o 

che cosa brucia?



Occorre scacciare i mercanti dai templi delle nostre vite

La società della merce è l’espressione più malvagia e asservita ai codici dominanti,  le masse sono i nuovi schiavi del mercato globale. I  paesi industrializzati stanno al giogo. Il sottosviluppo che ri/producono , il sistema che impongono e il consenso generalizzato permette loro di far  passare guerre, genocidi, crimini commessi contro i popoli più impoveriti, come modelli di sviluppo economico e politico. I “paesi civili”  responsabili di tali cambiamenti climatici sono ovviamente  i più fervidi promotori del modello globalizzato della società della merce, veicolandola come afflato universalistico e missione umanitaria, tesa ad estendere al resto del mondo l’eredità nobile del nostro illuminismo: i diritti umani e i valori della democrazia. I crolli dei mercati finanziari, la fame del mondo, le guerre di esportazione  sono affari… Gli Stati civilizzati hanno ridotto tutto a merce e gli uomini sono controllati secondo le modalità della catalogazione degli insetti. Gli accordi economici e finanziari, le leggi sulla flessibilità del lavoro, il ruolo dei sindacati, la gestione ecologica delle nocività, la repressione del dissenso - tutto ciò viene definito a livello internazionale. Le esigenze della merce si sono fuse con quelle del controllo sociale, utilizzano le stesse "reti": il sistema bancario, assicurativo, medico e poliziesco si scambiano continuamente i propri dati. L'onnipresenza di tessere magnetiche realizza una schedatura generalizzata dei gusti, degli acquisti, degli spostamenti, delle abitudini.

Nella produzione moderna il soggetto non è l’uomo ma la merce.

La merce è l’ideologia di questo modello di sviluppo. La politica la pattumiera dove tutto finisce.

Il futuro del nostro pianeta, sia dei paesi a tecnologia avanzata sia di quelli a minore sviluppo - è legato alla capacità di rompere la spirale perversa che attualmente li attanaglia. Il futuro dei Cittadini di questo pianeta è legato alla capacità che essi avranno di scardinare le due forze sinergiche  che  sostengono e alimentano il processo: da una parte un apparato che produce merce a ritmi forsennati dall’altra una moltitudine di “consumatori” mai sazi. Occorre uscire dalla logica della crescita illimitata e considerare il consumismo come una dipendenza dalla quale dobbiamo al più presto liberarci. Occorre sradicare la  convinzione che la nostra felicità dipende dalla quantità di beni che abbiamo a nostra disposizione. Occorre in definitiva una vera rivoluzione culturale, un‘operazione di decolonizzazione dell’immaginario: una rivoluzione culturale che divenga  la tappa necessaria per passare dalla condizione di sudditi di un sistema mercificante che divora e distrugge, a Cittadini protagonisti della propria vita e quindi del cambiamento. Occorre una strategia che colpisca ovunque dall'interno di noi stessi, senza tregua, senza esitazione, senza pietà. Occorre una tattica che stani il nemico dagli anfratti più augusti del nostro esistere così come dalle grandi piazze mediatiche.

Occorre scacciare i mercanti dai templi delle nostre vite...


giovedì 4 febbraio 2021

Un epoca rivoluzionaria, Mikhail Bakunin – parte prima

Mikhail Bakunin era nato l’8 maggio 1814 a Prjamuchino nella provincia di Tver, da una famiglia di proprietari terrieri. Aveva passato l'infanzia in una fattoria in cui vivevano cinquecento "anime", cioè servi. La grande casa settecentesca era rallegrata dalle risa e dai giochi dei fratelli e delle sorelle di Mikhail; sul davanti scorreva un fiume largo, maestoso: il paesaggio che il rivoluzionario russo ricorderà per tutta la vita. Come un personaggio di Turgheniev o di Cecov, il giovane Mikhail crebbe in un ambiente ricco di sottili emozioni, immerso nella grandezza della natura. Era il maggiore di dieci fratelli. Una vera banda, di cui lui era il capo. A tutti insegnò subito a ribellarsi alle autorità, a cominciare da quella paterna, come più avanti insegna loro come ribellarsi a corteggiatori, fidanzati e consorti. Un'inibizione sessuale di origine evidentemente incestuosa lo spinse per tutta la vita a ricercare la  compagnia di giovani donne, anche sposate, che poi invariabilmente “doveva” lasciare. All'età di quarantaquattro anni sposò in Siberia una ragazza di diciotto che ebbe due figli con un altro uomo pur continuando a convivere con Bakunin. Come Marx, Bakunin divenne in gioventù un idealista hegeliano. A 19 anni aveva assistito al fallimento della congiura decabrista in cui era implicata la famiglia di sua madre. A ventisei anni, nel 1840, si recò a Berlino per attingere alla fonte dell'hegelismo. Ma voleva anche raggiungere una sorella che aveva convinto a lasciare il marito e ad andarsene col bambino in Germania. A Berlino l'influenza dei giovani hegeliani lo spinse a sinistra. Da ribelle all'autorità paterna, il giovane russo si converti in ribelle all'autorità del super-padre, l'imperatore. La “piccola banda” dei fratelli, del resto, lo aveva abbandonato: la sorella s'era riconciliata col marito ed era tornata in Russia, un fratello che lo aveva raggiunto a Berlino se ne tornò a casa a fare il funzionario, e un'altra sorella, che Bakunin aveva teneramente amato, s'era innamorata dello scrittore Targheniev, e restava a casa anziché raggiungere il “capobanda” in Germania. Fu allora che  Bakunin scrisse la frase diventata famosa: «Il desiderio di  distruggere è anche un desiderio creativo», che diventerà un caposaldo della concezione anarchica fine secolo e che subirà una razionalizzazione da parte dei libertari operaisti nella formula: “La classe operaia può distruggere tutto, perché tutto ha costruito e tutto può ricostruire”. E comunque insensato voler attribuire  soltanto a tare psichiche o a contrasti familiari gli atteggiamenti di un grande rivoluzionario. La psiche di un uomo, certe esperienze formative - del resto comuni a gran parte degli uomini, che  però non hanno la lucidità e il coraggio di  ammetterlo —  possono spiegare tutt'al più le modalità di scelte altrimenti inspiegabili, non perché si diventa ribelli o conformisti. Era stato ufficiale di artiglieria in Russia, e sapeva come si conduce all'attacco una colonna e si organizza una difesa.
Con la sua corporatura imponente, con la sua parola appassionatamente popolare, fa pensare a un “bandito” patriota come Garibaldi. Bakunin però non diventò un patriota russo, un eroe nazional-popolare,ma portò l'idea stessa della rivoluzione internazionalista in tutto il  mondo. Partecipò alle giornate di febbraio, nel 1848, con la Guardia Nazionale Operaia di Parigi, all'insurrezione di  Praga, di Dresda. In quest'ultima città fu in pratica l'unico che nel 1849  seppe organizzare la resistenza, e che si batte fino all'ultimo, anche se non aveva un grande interesse a questa rivolta cui aveva aderito dietro sollecitazione del musicista Richard Wagner, allora direttore dell'Opera di Dresda. Arrestato dai prussiani e condannato a otto anni di carcere, dopo tredici mesi passati in prigione a Dresda e nella fortezza di Kongstein, una notte lo trascinarono fuori dalla cella per decapitarlo: a sua insaputa era stato condannato a morte. All'ultimo momento la  pena venne commutata nell'ergastolo, ma fu consegnato all'Austria che ne aveva chiesto l'estradizione onde processarlo per la rivolta di Praga. Conclusione: Bakunin venne rinchiuso nella cittadella di Hradcin, dopo essere stato consegnato a Praga come prigioniero di guerra. 


RUE BARBARE - Gilles Béhat

Una sera, la Rue. L'indifferenza, la paura. Un  uomo, Daniel Chetman, torna dal lavoro. Aveva giurato di non  occuparsi più degli affari degli altri, ma le circostanze fanno sì che porti aiuto a una piccola cinese, soprannominata "la ragazza dei denti di perla". Una ragazza che è stata colpita da chi comanda il quartiere: Hagen. Un gesto di solidarietà che lo condanna poiché trasgredisce la legge non scritta del luogo dove egli vive. Chet ha così spezzato le regole. Ha rotto con la paura.
Ed in fondo quel che Hagen il tiranno vuole. Egli è intervenuto negli affari di colui che impone il suo ordine "nero" a una banda che gli è devota: i Barbari. Tre giorni, tre notti. Ombre e luci dove la tensione non diminuisce. Tre giorni, tre notti che conducono ineluttabilmente Chet a riprendere il ciclo della violenza per affrontare i bruti di Hagen e per difendere Hagen stesso. Tre notti, tre lunghe notti nel corso delle quali conoscerà il dubbio e la disfatta. L'amore nelle  braccia di "Manu la Rouge" e la malinconia della solitudine che si perde con i suoi migliori anni. Tutto è a  posto. Almeno apparentemente. Il clan stesso di Chet non prevede il ciclone. Eddie, la fragile  Eddie, la sua  donna, altre volte vittima della strada. Carla, la sua bella sorella, vittima e orgogliosa del suo corpo. Paul,  suo fratello, vecchio rocker ormai avviato alla deriva. Georges, suo padre, ostaggio di fantasmi e di frustrazioni. E Temporini, infine, simbolo di amicizia. Al nascere della notte, la follia si manifesta in tutte le  sue forme. Eddie e Hagen hanno perduto la vita. La  purezza della prima era il prezzo da pagare. I resti del secondo sono stati  dispersi dalla folla. La folla che, domani, riprenderà il suo aspetto normale e che aprirà senza  dubbio alla via un nuovo capo... 
Il regista Gilles Béhat: “Il libro di David Goodis “Epaves” mi ha toccato profondamente: vi ho ritrovato l'universo della mia adolescenza. Io ho vissuto in un centro alla periferia di Lilla. Vi assicuro che nel 1965 il clima era di paura e  di delinquenza. Nel mio quartiere c'era uno che dirigeva una banda di balordi che avevano tra i 25 e i 30 anni. Questi ragazzi esprimevano la violenza allo stato più brutale, e San, il loro capo, era un "padrino". L’ho ritrovato in "Epaves"  qualcosa che avevo già  conosciuto e da cui poi ho sentito bisogno di allontanarmi  per entrare nella musica (sono stato chitarrista di un'orchestra per rock per  quattro cinque anni)  e successivamente nel  teatro. Il fatto che la gente del quartiere passa ai  fatti non è forse la condanna della  neutralità? La violenza alla dittatura  è  infatti uno dei temi posti da Goodis. Quando uno regna con il  terrore, la forza, il potere della violenza  si riverbera sul quartiere della gente co stretta a subire. Che fare?  È la "Rue  barbare". Il racconto riguarda  una regione, un paese. Chet fa la sua rivoluzione. Egli capovolge il  potere, e se ne va. È nella periferia di Chet che si  "afferma" il quartiere. La periferia è una frontiera. È in questo mondo che la gente vive le sue angosce, la sua solitudine, le sue speranze, la sua miseria. Questo mondo che si defila è una specie di treno che passa su cui le persone non possono salire. È un mondo che passa... Di fronte alla dissoluzione, Goodis oppone la derisoria espressione della sua poetica in cui si annida chi tenta di lottare contro un male misterioso che gira  attorno e  distrugge  la vita nel suo medesimo senso. Conoscevo Goodis soprattutto attraverso il cinema. Io sono rimasto colpito da  "Epaves",—mi ha affascinato la straordinaria parabola sulla violenza, il potere e la presa di coscienza di gente che a un dato momento decide non di non vivere più sotto la dittatura di un "padrino" di quartiere".






IL FEDERALISMO E L’AUTOGESTIONE

L'Individuo è il fine ultimo ma la sua realizzazione viene vista da questa appartenenza alla realtà autogestionaria. L'autogestione dunque malgrado la sua connotazione a-statale, non esclude al suo interno forme decisionali di tipo democratico (maggioranza / minoranza) o di ampia delega. È su questa radice che si basa il federalismo "libertario" connaturato all'autogestione perché riconosciuto insito nelle mutevoli ma permanenti necessità consociative delle varie realtà consociative. Allo stesso modo che l'autogestione non esclude forme di ampia delega, il federalismo libertario non esclude forme di organizzazione statale ridotta alle funzioni essenziali e configura una costruzione dalla periferia al centro. Il federalismo anarchico parte anch'esso dall'autogestione e del resto è l'anarchismo a porne il concetto, ma non si limita ad essere a-statale. Il federalismo anarchico è antistatale perché pone come non ulteriore ma primario elemento autarchico l'individuo, che trova il legame con gli altri e le altre realtà non nel "bene comune" ma nella solidarietà volontaria. Rifiuta così non solo il concetto di governo dall'alto ma anche quello della democrazia e della delega. Il federalismo anarchico non riconosce maggioranze o minoranze ma solo l'oggettivo prevalere di una soluzione "tecnica" su altre ed il diritto per chi non condivide quella prevalente di provare la propria. Il concetto di autogestione e di federalismo diventa talmente peculiare nell'anarchismo da renderlo difficilmente compatibile con qualsiasi costruzione di tipo statico e assolutamente incompatibile con quella di tipo statale. Il suo federalismo non è una costruzione dal basso all'alto ma nemmeno dalla periferia al centro, è tendenzialmente una costruzione orizzontale.