Nel film s'immagina che all'indomani d'uno scontro cruento all'interno della chiesa che stava affrescando, bruciato dal rimorso, convinto di non aver più nulla da dire con la pittura e persuaso da Teofane il Greco della miseria degli uomini, Rubljov abbia smesso di dipingere e si sia chiuso nel silenzio del convento di Andronikov. Ma quindici anni dopo qualcosa lo riportò nel mondo. Fu quando assistette alla fusione d'una grande campana, realizzata insieme al popolo da un giovane cui nessuno aveva insegnato quell'arte con gli stessi strumenti, l'argilla e l'argento, in cui vide simbolicamente condensato il destino dell'uomo. Questo, pensano Rubljov e Tarkovski, è il debito dell'artista verso la storia: offrire, con la bellezza dell'invenzione, un rifugio alla speranza. È questo il traguardo: un abbraccio soave fra natura e poesia che superi il dolore del tempo. Perciò il film, apertosi esaltando l'utopia racchiusa nel volo impossibile di un pallone, si chiude sulle immagini della bellissima Trinità di Rubljov e di alcuni cavalli lungo il fiume. Arte e verità si fondono, e la realtà assume i colori sereni della vita.
I film che è obbligatorio vedere non sono poi molti. Questo lo è. Dura oltre tre ore, non vi è nessun attore di grande fama, è in bianco e nero, ma è, semplicemente, uno dei capolavori del cinema degli anni Sessanta, e una delle più alte esperienze emotive offerte da un regista che insieme a pochi altri merita il titolo di maestro. E anche, se lo scandalo politico vi pungola, un film «maledetto», che in patria è stato a lungo osteggiato, al punto che, finito nel '67 dopo una lunga incubazione, e tagliuzzato qua e là dall'autore dopo una testarda resistenza, soltanto nel '69 fu presentato molto di malavoglia al Festival di Cannes, e poi ebbe anche all'estero vita così difficile (pochi in Urss l'hanno visto) da impiegare otto anni prima di giungere sui nostri schermi.
Errore fondamentale di gran parte dei cosiddetti intellettuali sovietici del «dissenso» è quello di identificare lo stalinismo con il marxismo, e di rifiutare col primo anche il secondo; cancellando (cercando di cancellare) la Rivoluzione dalla storia e dalla cultura, essi traggono dalla Rus' presovietica un retaggio culturale che oggi potrebbe essere utile e progressista soltanto se fosse assunto criticamente. Tarkovskij è uno di questi «nostalgici»: basti notare come i concetti di popolo, storia, natura che troviamo nel Rubljov somiglino a quelli del primo Tolstoj. Il «popolo» non si presenta nel film con i connotati di una classe sociale definita storicamente, si identifica invece con un'umanità contadina che è «padrona del segreto della natura». Il monaco-pittore Andrej Rubljov non è protagonista di un dramma, esiste in quanto è una presenza nella realtà della sua terra. Egli rifiuta la religione utilizzata dai principi come strumento di dominio, cosi come rifiuta la pittura di Teofano; trova nella subcultura della Rus' contadina una valida alternativa alla cultura dominante. Durante la festa pagana, Andrej viene a contatto con tale religiosità popolare, e capisce che è veramente vicino a Dio chi «e» natura, non chi vuole imporre forzatamente una fede astratta. Sconvolto da questa rivelazione, non sa agire; rimane immobile di fronte al muro che deve affrescare perché si accorge dell'inadeguatezza di una cultura religiosa che svilisce il corpo umano e rende la donna subalterna. I rintocchi della campana costruita grazie al lavoro del popolo e all'ispirazione di Boriska risvegliano Andrej dal silenzio e dall'inattività: egli capisce che la grande opera frutto della forza popolare «originaria». Con i limiti ideologici, il Rubljov evidenzia un'indubbia contestazione alla situazione sovietica attuale. I «principi» costituiscono una forza reazionaria chiusa in vecchi pregiudizi: non è difficile identificarli con gli odierni burocrati del Cremlino; la religione istituzionalizzata che sostiene il potere dei primi equivale al revisionismo stalinista di questi ultimi, il Cristo terribile dipinto da Teofano è Stalin, l'arte con cui si opprime il popolo è lo zdanovismo.
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