“L’incontro fra Marx e Proudhon riveste un’importanza storica, in quanto si manifestarono in esso i primi segni di quel conflitto inconciliabile fra socialismo autoritario e anarchia che avrebbe toccato il suo punto di massima violenza venticinque anni dopo, in seno alla I Internazionale”. Questo rapporto, però, era iniziato nel migliore dei modi subito dopo la pubblicazione di “Che cos’è la proprietà?”, che colpì molto positivamente Marx, dandogli anche molti spunti di riflessione. È, infatti, molto probabilmente sotto l’influsso dell’opera proudhoniana che il futuro autore de “Il Capitale”, in un articolo pubblicato sulla “Gazzetta Renana” nel 1842, scrisse: “Se qualunque offesa alla proprietà, senza distinzione, senza specificazioni, è furto, non sarebbe da dirsi furto ogni proprietà privata? Colla mia privata proprietà non escludo io tutti gli altri da questa proprietà? non ledo in tal modo il loro diritto di proprietà?”. Secondo Gurvitch e Bancal, inoltre, è dal seguente passo di “Che cos’è la proprietà” che Marx avrebbe tratto spunto per la sua teoria del plus-valore o plus-lavoro. Nonostante alcune critiche, Marx cercava di instaurare uno stretto rapporto con Proudhon, pensando di poterlo “convertire” alla sua nascente dottrina comunista: la rottura tra i due, però, si consumò già nella seconda metà degli anni ‘40 del XIX secolo. Una rottura che verteva essenzialmente su due grossi punti: il rifiuto, da parte di Proudhon, del comunismo e del dogmatismo marxiano, e un’opposta concezione del metodo con cui attuare il cambiamento della società. Due punti messi perfettamente in luce da Proudhon nel replicare ad una lettera in cui Marx, nel ’46, gli proponeva di istituire una costante cooperazione, utile ai fini della discussione e dell’azione. Il pensatore francese rispose così: “Faccio professione in pubblico di un quasi assoluto antidogmatismo economico. Non facciamo di noi stessi, perché siamo alla testa di un movimento, i campioni di una nuova intolleranza, non posiamo ad apostoli di una nuova religione, sia pure la religione della logica e della ragione. Raccogliamo e incoraggiamo tutte le proteste, rifiutiamo ogni esclusivismo, ogni misticismo; non consideriamo mai esaurita nessuna questione. A questi patti aderirò volentieri alla vostra associazione; altrimenti, no! Risulta quindi evidente, innanzitutto, come Proudhon rifiuti qualsiasi pretesa di venire a capo di verità assolute, e ritenga invece fondamentali i principi della tolleranza e della libera e costante critica di ogni teoria. L’antidogmatismo, del resto, è una caratteristica che sarà tipica di tutto il movimento anarchico successivo: se, infatti, si pone la libertà come valore fondamentale, non c’è spazio per verità assolute ed intoccabili. “L’idea stessa di utopia riesce inaccettabile alla maggior parte degli anarchici, in quanto si tratta di una rigida costruzione intellettuale che, imposta con successo, sarebbe tanto micidiale al libero sviluppo dell’individuo quanto qualsiasi stato esistente. Inoltre, ogni società utopistica è concepita come perfetta, e tutto ciò che è perfetto cessa automaticamente di evolversi”. Niente di più lontano, quindi, dall’arroganza e dalle presunzioni marxiste. È d’obbligo, inoltre, aggiungere che Proudhon, proprio perché anarchico e quindi fautore di una società senza stato né gerarchie di alcun tipo, rigetta il socialismo/comunismo di stampo marxista in quanto autoritario: egli aveva quindi già individuato, con largo anticipo rispetto alla maggior parte degli uomini di sinistra, la vena dittatoriale presente nelle teorie dell’autore del Capitale.
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