Proudhon è stato, in “Che cos’è la proprietà?”, il primo a definirsi esplicitamente come un anarchico, ed il primo a conferire al concetto di “anarchia” una connotazione positiva. Precedentemente, infatti, anarchico ed anarchia erano termini utilizzati esclusivamente in accezione negativa, identificando l’assenza di un principio di governo e di gerarchia (dal greco “anarchos”) con il caos: Proudhon, invece, come abbiamo visto nelle scorse pagine, cerca di dimostrare che la libertà può essere “madre dell’ordine”. Prima di lui c’erano già stati altri pensatori che avevano esposto idee e valori che oggi inquadriamo all’interno dell’anarchismo, in primis Godwin e Stirner: questi, però, non avevano mai definito se stessi come anarchici. E’ stato Proudhon, quindi, colui che ha dato inizio all’anarchismo consapevole di se stesso, gettando, con le sue teorie riguardanti l’autogestione ed il rifiuto dello stato, le basi della filosofia e del movimento libertario. Questo ruolo di pioniere gli è stato pienamente riconosciuto da due dei personaggi di maggior spicco della storia dell’anarchia: Bakunin e Kropotkin. Il primo ha infatti affermato che “Proudhon è il maestro di tutti noi”.Sia Bakunin che Kropotkin, quindi, sono stati profondamente influenzati dalle teorie del pensatore francese, ma entrambi se ne discostano per alcuni, significativi, aspetti. Sono due, i principali punti su cui le idee bakuniane divergono da quelle proudhoniane: il modo in cui attuare il cambiamento, ed il tipo di organizzazione economica da dare alla futura società anarchica. Per quanto riguarda il primo punto, Bakunin si trova perfettamente d’accordo con Proudhon quando afferma che “la rivoluzione deve necessariamente precedere la rivoluzione esterna, anche perché questo mutamento radicale dell’uomo è il necessario presupposto del successo di quella”: questa idea, ponendo come fondamentale il mutamento interno ad ogni singolo individuo, contrasta fortemente con la teoria marxista di una rivoluzione realizzata da una ristretta avanguardia a capo di una massa proletaria informe, ed abbraccia quindi perfettamente quella concezione individualistica del mondo già espressa da Proudhon. Bakunin, tuttavia, rifiuta, considerandola sostanzialmente utopica, la teoria di Proudhon secondo la quale il passaggio dal capitalismo all’anarchia debba avvenire in modo graduale e pacifico. Pur rendendosi perfettamente conto dei mali connessi ad una rivoluzione violenta, giudica quest’ultima come l’unico mezzo possibile per l’abbattimento dello stato: quest’ultimo, infatti, non farà mai harakiri spontaneamente. “La distruzione è un passo necessario per ottenere quell’effetto rigenerativo della società e dei singoli che la compongono che solo la rivoluzione può produrre”. Il secondo punto di rottura, riguarda l’organizzazione da instaurare con l’anarchia. Bakunin, pur conservando alcuni aspetti del mutualismo proudhoniano, teorizza il collettivismo. “Bakunin e i collettivisti della fine del decennio 1860-70, cercando di adattare le dottrine anarchiche a una società sempre più industrializzata, sostituirono all’idea proudhoniana del possesso individuale l’idea del possesso da parte di istituzioni volontarie, pur tenendo fermo il diritto del singolo lavoratore di godere il frutto delle sue fatiche o l’equivalente di esso”. Con Bakunin, il gruppo di lavoratori, la collettività, prende il posto del lavoratore singolo come unità di base dell’organizzazione sociale: questa soluzione era ritenuta necessaria se, dall’economia prevalentemente agricola ed artigiana che caratterizza il pensiero di Proudhon, si passano ad affrontare i problemi di una società industriale. Bakunin, tuttavia, resta vicino alle idee proudhoniane quando si oppone alla formula anarco-comunista “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, affermando che si deve invece organizzare la produzione secondo quest’altro principio: “da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo quanto ha fatto”. Solo in questo modo, infatti, secondo lui si può evitare che l’ozioso sfrutti il volenteroso fermo restando la necessaria solidarietà da attuare nei confronti di coloro che non hanno possibilità di lavorare.
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