Autodidatta spinto da una pungente curiosità scientifica e svagato costantemente da un carattere fra bizzarro e superficiale, Proudhon si rivela assai più tagliato per la memorialistica e per la polemica pubblicistica che non per la ricerca scientifica sistematica. Lo confessa egli stesso, d'altronde: «La scienza pura è troppo arida - scrive ad Ackermann, il 6 maggio 1841 -; i giornali troppo frammentari; i lunghi trattati troppo pedanti: i miei maestri sono Beaumarchais e Pascal». Da questo punto di vista Proudhon - contrariamente all'opinione riferita da Mehring - è tutt'altro che «una testa tedesca»; è invece calato interamente nella tradizione della cultura politica francese, nella scia dei philosophes e dei pamphle-taires, imbevuto di quella pozione filosofico-letteraria che aveva le sue sorgenti profonde nell'esprit politique nato nella ricca atmosfera del Settecento francese, confinante a un lato col moralismo filosofico e all'altro con la retorica umanitaria. E moralista infatti lo hanno giudicato i suoi ammiratori e i suoi discepoli, mentre un caustico genio come Marx, che non dimenticava certo la ruggine che c'era stata con Proudhon, lo giudicava, molti anni dopo, puramente e semplicemente un retore. Persino Sorel, così devoto a Proudhon, riconosce che «tutta la dottrina di Proudhon era subordinata all'entusiasmo rivoluzionario». Tre anni prima della morte, d'altronde, e prima del duro giudizio di Marx, Proudhon così si confessava a Bergmann in una lettera dei 14 maggio 1862: «Ho lavorato molto, ho commesso molte sciocchezze, molti errori; ho imparato qualcosa e ho ignorato moltissime cose; credo d'avere un qualche talento, ma un talento incompleto, sconnesso, ineguale, pieno di soluzioni di continuità, di negligenze, di intemperanze... Sarei riuscito meglio, credo, se avessi avuto meno da fare in ordine alla mia educazione mentale; se avessi trovato le mie idee bell'e fatte, i problemi risolti; se non avessi dovuto fare altro che il tribuno e il volgarizzatore... Ma sono stato, credo, un uomo onesto; da questo punto di vista mi pongo senz'altro al livello di tutti i maestri». Ma poiché è noto che non basta essere un uomo onesto per passare alla storia bisogna pur riconoscere che Proudhon, oltre al temperamento farouche che egli stesso si riconobbe, oltre allo «stile assai muscoloso» che gli riconobbe anche Marx, ebbe i suoi specifici meriti: dette voce al dissesto della Francia, alla irrequietudine sociale del suo tempo di fronte alla prima crescita del nuovo mondo borghese formulando, con teorie spesso più brillanti che profonde, rivendicazioni pratiche e prospettive avveniristiche che suscitarono e alimentarono la critica e la rivolta. Questo «homme compliqué», questo «blousier pamphletaire», come l'ha chiamato Leroy, fu a lungo lo scandalo di Parigi e della Francia, fu - come volle definirsi egli stesso - «l'excommunié de l'époque», ma concorse non poco, di fatto, a scomunicare a nome delle plebi e del proletariato le verità ufficiali. O sarà proprio un caso che non pochi comunardi del 1871 si richiameranno a lui? Egli incarnò l'inquietudine e le indecisioni di un'epoca, se non riuscì a superarle e quietarle teoricamente: ma anche così - bisogna convenire con Lucien Febvre - Proudhon «ha contribuito, e per una larga parte, al nutrimento intellettuale e morale degli uomini, dei militanti che hanno lottato.., per mettere in piedi i sindacati, le camere del lavoro, le loro unioni e le loro confederazioni», le strutture generali del movimento operaio.
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