Dalla perizia psichiatrica dei sig. Biffi e Tamburini apprendiamo che Giovanni Passannante non era un deficiente come vorrebbero far credere oggi i sicari della penna, ma possedeva un’intelligenza superiore alla media, che gli aveva permesso, a lui umile cuoco, di acquistare una cultura non comune fra la gente del popolo. Ebbene malgrado la sua bontà d’animo affermata dagli psichiatri, malgrado la sua illibatezza di costumi, malgrado la nobiltà dei sentimenti che lo avevano spinto a compiere l’attentato, non contro Umberto I, ma contro il tiranno, fu condannato a morte, e per crudeltà maggiore, salvato dal patibolo per farlo morire cento volte al giorno, nelle tetre segrete della Torre. C’è da inorridire al pensiero di come quest’uomo geniale, intelligente, di sana e forte costituzione fisica, abbia potuto perdere la ragione e la salute. C’è da inorridire pensando a quei dieci anni passati nel buio e nel silenzio di una tomba. Il cadavere di Giovanni Passannante si innalza oggi fremente di fronte ad una dama eternamente bionda che non conobbe altro che le raffinatezze crudeli della più abietta vendetta. Nessuno ha mai potuto illustrare le sofferenze di Giovanni Passannante. Quando le porti pesanti della sua tetra e fetida prigione si aprirono per lasciarlo passare onde trasportarlo al manicomio di Montelupo, da quella tomba non uscì che il corpo disfatto della povera vittima, la quale lasciava là dentro la parte sua migliore, il suo cervello pensante, la sua forza d’animo, la fede nell’Idea di fratellanza umana. Poche rivelazioni si ebbero sulla vita che il Passannante passò in carcere. L’unica persona che lo vide, l’on. Bertani, ne fa un quadro raccapricciante. Saverio Merlino ne parla nel suo libro L’Italie telle qu’elle est in questo modo: «Per due anni e mezzo Passannante restò sepolto in una completa oscurità, in una cella situata al di sotto del livello dell’acqua, e là sotto l’azione combinata dell’umidità e delle tenebre il suo corpo spogliò di ogni pelo, si scolorì e si gonfiò in una guisa pietosa. Più tardi lo si fece montare per scale segrete e oscure, senza ch’egli vedesse un lembo di cielo, a una cella superiore. Là egli restò rinchiuso giorno e notte senza interruzione. Il guardiano che lo guardava a vista, aveva l’ordine espresso di non mai rispondere alle sue domande, fossero anche le più urgenti e le più indispensabili. È inutile dire ch’egli non riceveva mai né lettere, né visite. Bertani fu il solo che riuscì a forzare la consegna. Dopo otto giorni d’insistenza, di minacce e di dispacci col ministero, ottenne un permesso, che era stato sempre rifiutato a degli stranieri eminenti, ed anche all’arcivescovo di Portoferraio. Ma egli doveva guardare il prigioniero da un buco della porta e alla condizione assoluta di non parlare, perché il prigioniero non doveva accorgersi della presenza d’un visitatore. Dopo un certo tempo, necessario ad abituare l’occhio alle tenebre, Bertani poté discernere alla debolissima luce di una lanterna situata nell’interno della cella la figura di Passannante ridotto in una condizione raccapricciante. Le sue membra erano gonfie, il suo viso cereo, egli giaceva su un tavolaccio ed emetteva dei rantoli tenendo sollevata con una mano una grossa catena di 18 chili ch’egli non poteva sopportare in altro modo data l’estrema sua debolezza. Il disgraziato mandava delle grida strazianti, che i marinai dell’isola sentivano sempre con grande emozione; come i detenuti della prigione S. Francesco di Napoli avevano sentito le sue grida d’angoscia, quando lo si torturava, prima, durante e dopo il processo, per fargli confessare il nome dei presunti complici, ch’egli non aveva avuto. Simile orrendo trattamento spezzò la sua fibra robusta; egli impazzì, si ridusse a tal punto da mangiare i propri escrementi! Solo allora il governatore dell’isola si commosse e temendo peggio (come se potesse darsi una cosa peggiore di quella rovina!) si decise a trasferire la povera vittima al manicomio provinciale di Montelupo». E malgrado tutto questo si ha l’audacia di dire che Giovanni Passannante ebbe salva la vita per la bontà del sovrano. Un delitto continuato 33 anni si è potuto compiere indisturbato nell’Italia libera ed indipendente, consenzienti le antiche vittime della tirannia austriaca, alleate agli sbirri, ai magistrati, ai carcerieri, uniti tutti per rendere quanto più dolorosa era possibile la vita a chi aveva sentita l’audacia allettante della libertà senza limite. Giovanni Passannante è morto. Ma dove egli passò tanti anni della sua vita, un’altra intelligenza va spegnendosi lentamente. Pietro Acciarito, la vittima dei Doria e dei Canevelli, deve essere strappata alla vendetta della vedova inconsolabile. I Rivoluzionari, gli Audaci, i Ribelli debbono in ogni modo agitarsi ed agitare, per la libertà di lui e di tutte le altre vittime che malgrado le amnistie burletta di questi ultimi tempi, rimangono a languire nelle segrete italiane. Possano i racconti delle infamie compiute contro Giovanni Passannante, Pietro Acciarito e Gaetano Bresci; le uccisioni dei Frezzi, dei d’Anrelo e dei cento altri risvegliare nell’animo delle plebi italiane il fuoco sacro della Vendetta e dell’Odio. (La Rivolta, Pistoia, anno I, n. 8 del 19 febbraio 1910)
Nessun commento:
Posta un commento