C’è un modo di interpellare la realtà del mondo, la datità delle cose, che è quello di andarvi contro. Contro, dal latino cŏntra, indica una posizione e un movimento. La posizione è quella del “dirimpetto”, di fronte, davanti, del fronteggiarsi l’un l’altro. Il movimento è quello di operare in via opposta e contraria, porsi nella direzione dello scontro frontale.
Non solo le narrazioni e le storie possono andare contro: lo fanno anche le parole stesse. È questa l’idea dell’avanguardia storica e delle neoavanguardie, che non raccontano né dicono la crisi sociale e antropologica, né a inizio Novecento né alla sua metà, ma la mettono in scena sulla pagina scritta rivolgendogliela addosso – è la parola stessa a farlo, nel suo plurilinguismo e mistilinguismo babelico. Ideologia e linguaggio sono due poli interconnessi e inscindibili. È il laborintus infernale sanguinetiano: il montaggio schizofrenico e indifferenziato di materiali linguistici eterogenei rappresenta, è esso stesso l’alienazione neocapitalista, il caos di significati e significanti. La “controparola”è dunque un “gesto” che va scagliato davanti a sé; un atto performativo di sovversione materiale dell’esistente, che smette di essere solo parola per diventare prassi. Gli anni ’70 italiani conoscono una stretta collaborazione tra esponenti delle neoavanguardie e sinistra rivoluzionaria. Ed è nel mezzo di queste esperienze interconnesse che possiamo forse individuare due momenti opposti della “controparola”, passando dal Gruppo 63 al détournement situazionista, la “dialettica radicale” di Giorgio Cesarano, poeta, saggista e rivoluzionario. Usando le sue parole: «Che cosa garantisce questo stesso scritto di sfuggire all’integrazione automatica, all’azzeramento che scatta su ogni discorso pronunciato nelle forme squalificate della cultura? Niente del tutto. La cultura ha l’onnivoracità dell’ingordo che sa di avere alle spalle il vomitorio. Ma la dialettica radicale può fottersene dei rischi corre: non parla della verità a qualcuno, ma parla la verità di ciascuno; non chiede d’essere ascoltata, divulgata, tradotta in spiccioli, ma pretende di verificarsi; sa d’essere consaputa e, se parla, è perché chi parla fa l’uso della cultura che l’arrabbiato fa della strada e della vetrina: l’espressione della propria collera creatrice. Niente di più, ma assolutamente niente di meno. Nessuno delira più di cinghie di trasmissione, d’intellettuali arruolati in funzione di pedagoghi. Semplicemente, ognuno fa del luogo in cui è collocato il terreno della sua insurrezione. La dialettica radicale non getta la parola come una bottiglia vuota: una comune sapienza insegna ogni giorno agli insorti di quale uso creativo si ricarichino le bottiglie. È questa stessa la sapienza che qui prende la parola: essa non ha da comunicare ad altri che al suo bersaglio». Che è ciò che di più vicino possiamo indicare per questa variante della nostra idea di “controscrittura” all’altezza degli anni ’70 – mai strategica e mai ragionativa ma iconoclasta, spregiudicata, sovversiva, materica, tattica e non addomesticabile.
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