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giovedì 12 settembre 2024

L’Anarchia nel XX secolo – Parte XXXIII

1936 

Al congresso del maggio 1936 la CNT ha proposto all'altra grande organizzazione dei lavoratori, la socialista UGT, di concludere «un patto rivoluzionario» con lo scopo di «distruggere completamente il regime politico e sociale che regola la vita del paese», lasciando la questione dell'organizzazione del nuovo regime sociale «alla libera elezione dei lavoratori liberamente riuniti». Il congresso ha elaborato anche un dettagliato programma riguardante la struttura e il funzionamento della società «comunista libertaria» che deve emergere dalla rivoluzione, ma la CNT continua a opporsi a qualsiasi alleanza con i partiti politici. Anche il partito comunista spagnolo (PCE) auspica l'unità sindacale UGT-CNT, ma su presupposti radicalmente diversi da quelli della CNT. Per il PCE non si tratta di giungere alla rivoluzione proletaria ma di «fare pressioni» sul governo repubblicano perché applichi il programma del fronte popolare. Poi, per il PCE la direzione dell'azione deve essere nelle mani dei partiti della sinistra e non dei sindacati. In particolare il PCE vuole sviluppare l'unita d'azione già stabilita col partito socialista e prefigurante l'unificazione. Tale impostazione unitaria pare rispondere alle esigenze della situazione oggettiva, dominata dal pericolo del colpo controrivoluzionario. Ma la stessa situazione oggettiva s'incarica di denunciare, all'indomani del colpo franchista, i limiti della politica comunista. Infatti le masse spagnole sono molto più avanzate di quanto il PCE immagini e di quanto la stessa direzione della CNT possa sperare. Alla notizia della ribellione militare, infatti, gli operai e i contadini spagnoli rispondono con una rivoluzione sociale, e questa rivoluzione ha un carattere largamente anarchico, anche se la UGT è numericamente grande quanto la CNT. Nei primi mesi successivi al golpe i avoratori socialisti di Madrid agiscono sovente con uno spirito rivoluzionario pari a quello dei lavoratori anarco-sindacalisti di Barcellona: essi formano le loro milizie e pattuglie stradali ed espropriano un certo numero di fabbriche d'importanza strategica ponendole sotto il controllo dei comitati operai. I contadini socialisti della Castiglia e dell'Estremadura formano dei collettivi, molti dei quali sono libertari come quelli creati dai contadini anarchici d'Aragona e del Levante. In questa fase iniziale e «anarchica » della rivoluzione, tanto simile alle fasi iniziali di precedenti rivoluzioni, le «masse» cercano di assumere il controllo diretto della società rivelando un notevole slancio nell'inventare (o riprendere dalla tradizione) le loro forme libertarie di amministrazione sociale. Questo era

successo già nella Comune di Parigi e nella rivoluzione russa. Ma ciò che rende unica l'esperienza spagnola è la presenza di una grande organizzazione e tradizione anarchiche, che rende più durevoli questi tentativi di autogestione e che offre una certa resistenza alla controrivoluzione stalinista. Infatti la rivoluzione del 1936 segna il culmine di più di 60 anni di agitazione anarchica in Spagna. Lo stesso partito socialista e la UGT si erano diffusi più nell'area amministrativa di Madrid che nelle grandi città operaie come Barcellona. Ciò che spinge la classe operaia ad agire contro Franco è la difesa di quanto ottenuto immediatamente espropriando fattorie e fabbriche. E questo che i comunisti legati a Mosca non possono accettare quando impostano l'azione antifranchista sul piano esclusivamente militare e di alleanza repubblicana. D'altro canto i vertici della CNT commettono l'errore di partecipare al governo di coalizione antifascista di Madrid da una posizione subordinata e inefficiente. Di fronte all'inerzia dei capi del partito socialista e del partito comunista e delle centrali sindacali più forti, le masse operaie francesi creano una situazione rivoluzionaria con l'azione diretta. I partiti della sinistra sono come paralizzati dalla brusca svolta del Comintern, che dal VI al VII congresso è passato dalla teoria del «socialfascismo» (fascismo e socialdemocrazia sono fratelli gemelli) alla teoria e alla prassi dei fronti popolari, che riabilitano le socialdemocrazie in tutto il mondo nonché i radicali e altre forze della borghesia cosiddetta «progressista» per fare argine contro il fascismo. Ma la crisi si manifesta nel fatto che, per quanto riguarda la Francia, il popolo è nauseato dei radicali e della III Repubblica. Le elezioni svoltesi il 26 aprile e il 3 maggio 1936 vedono infatti il trionfo dei due partiti di sinistra, che assieme ottengono oltre 3 milioni e mezzo di voti: il partito socialista 146 seggi (contro 97 nella camera precedente) e il partito comunista, con un milione e mezzo di voti, 72 (contro 16). Ma è una forza che resta inutilizzata e si esaurisce, priva di una guida politica, nel movimento dell'occupazione delle fabbriche. Infatti socialisti e comunisti si rendono garanti dei radicali di fronte all'elettorato popolare e appoggiano il ministro Daladier: al secondo turno partito socialista e partito comunista ritirano i loro candidati a favore dei borghesi radicali, alterando la volontà politica dei lavoratori francesi; ciononostante i radicali perdono oltre un terzo dei loro mandati.  Alle accuse della destra che dice che il crollo radicale è dovuto all'alleanza con le sinistre, Daladier replica: «Senza il fronte popolare avremmo perduto di più». Ciò è indubbiamente vero, e dimostra che la politica del fronte popolare è imposta dall'alto: dalla borghesia radicale, dagli affaristi legali al partito socialista e dai diplomatici sovietici. Il più disonesto di tutti i sistemi elettorali non riesce a nascondere il fatto che le mas se non vogliono una coalizione con i radicali come sostiene il cosiddetto fronte popolare, ma vogliono il raggruppamento dei lavoratori contro tutta la borghesia. 



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