Compagni,
pur senza voler dire nulla di particolarmente nuovo, vorrei dire qualcosa a proposito della lotta contro le forze che oggi intendono soffocare nel sangue e nello sterco la cultura occidentale o quel tanto di cultura che è residuata ad un secolo di sfruttamento. Vorrei attirare la vostra attenzione su di un unico punto sul quale, secondo me, è necessaria la massima chiarezza se si vuole combattere quelle forze efficacemente e soprattutto fino in fondo. Agli scrittori che in persona propria o altrui sperimentano le atrocità fasciste e ne sono atterriti, l’esperienza e il terrore non conferiscono necessariamente la capacità di combatterle. Taluno può pensare che basti descriverle, quelle atrocità, soprattutto se a descriverle è un grande talento letterario ed una collera autentica. Invero simili descrizioni sono molto importanti. Si compiono atrocità. E questo non deve essere. Si percuotono esseri umani. E non deve accadere. Perché continuare a discutere? Ci si levi e si fermi il braccio del seviziatore. Compagni, bisogna discutere.
Ci leveremo, forse. Non è troppo difficile. Ma poi viene il momento di fermare quelle braccia. E questo è già più difficile. La collera c’è, il nemico è individuato. Ma come farlo cadere? Lo scrittore può dire: il mio compito è quello di denunciare l’ingiustizia, tocca al lettore fare il resto. Ma in questo caso lo scrittore compirà una curiosa esperienza. Si avvedrà che la collera, come pure la compassione, è qualcosa di quantitativo, qualcosa che esiste e può manifestarsi in una o in altra quantità. E, peggio, si manifesta nella misura in cui è necessaria. Alcuni compagni mi hanno detto: quando per la prima volta abbiamo fatto sapere che i nostri amici venivano uccisi, si levò un grido di orrore e un aiuto grande. Cento erano gli uccisi. Ma quando gli uccisi furono mille e l’eccidio non ebbe fine sopraggiunse il silenzio e solo scarso fu l’aiuto. È così: «Quando i delitti si moltiplicano, diventano invisibili. Quando le sofferenze diventano insopportabili non si odono più grida. Si uccide un uomo: e chi guarda perde le forze. È naturale sia così. Quando i crimini vengono come la pioggia, nessuno più grida: basta».
Dunque è così. Come comportarsi, allora? Non c’è modo di impedire all’uomo di distrarsi dalle atrocità? Perché se ne distrae? Se ne distrae quando non scorge nessuna possibilità di intervenire. L’uomo non si ferma accanto al dolore di un altro uomo se non può dargli aiuto. Ci si può riparare da un colpo se si sa quando cade, dove cade e perché cade, per quale scopo. E se ci si può riparare dal colpo, se ve ne sia una possibilità qualsiasi, anche minima, allora si può avere compassione della vittima. E quella compassione la si può provare anche se quella possibilità non c’è, ma non per molto tempo e comunque non per tutto il tempo in cui i colpi continuano ad abbattersi sulla vittima. Dunque: perché cade il colpo? Perché si butta a mare la cultura come fosse zavorra (vale a dire quel tanto di cultura che ci è rimasto), perché la vita di milioni di uomini, della maggior parte degli uomini, è stata così immiserita, spogliata e in parte o del tutto annientata?
Alcuni di noi hanno una risposta a questa domanda. Rispondono così: per brutalità. Credono di assistere in una sempre più ampia parte della umanità ad una spaventosa eruzione, ad un pauroso processo di inconoscibile origine, che improvvisamente compare, che forse – si spera – altrettanto improvvisamente sparirà; alla emersione impetuosa di barbarici istinti bestiali lungamente repressi o assopiti.
Quanti rispondono così sanno naturalmente che una risposta simile fa poca strada. E sentono da soli che alla brutalità non si può conferire l’aspetto di una forza bestiale, di invincibili potenze infernali.
Parlano quindi di imperfetta educazione della stirpe umana. Qualcosa che è stato trascurato o che, nella fretta, non è stato compiuto. È necessario recuperarlo. Alla brutalità dobbiamo opporre il bene. Dobbiamo fare appello alle grandi parole, allo scongiuro che già altre volte è stato utile, ai concetti intramontabili – l’amore per la libertà, la dignità, la giustizia – la cui efficacia è storicamente garantita. Ed eccoli pronunciare il grande scongiuro. Che cosa succede? All’accusa di essere brutale, il fascismo risponde con il fanatico elogio della brutalità. Imputato di essere fanatico, risponde con l’elogio del fanatismo. Convinto di lesa ragione, mette allegramente sotto processo la ragione medesima. E poi anche il fascismo trova che l’educazione è stata imperfetta. Si ripromette grandi cose dalla possibilità di influenzare le menti e di rafforzare i cuori... Alla brutalità dei suoi sotterranei adibiti alla tortura aggiunge quella delle scuole, dei giornali, dei teatri. Educa tutta la nazione e tutto il giorno. Non ha molto da offrire alla grande maggioranza, quindi ha molto da educare. Non dà da mangiare e quindi deve educare all’autodisciplina. Non può metter ordine nella sua produzione e ha bisogno di guerre: deve quindi educare al coraggio fisico. Ha bisogno di vittime e quindi deve educare al sacrificio. Anche questi sono ideali, mete richieste agli uomini; e alcuni di questi persino alti ideali, alte mete. Ora, noi sappiamo bene a che cosa servono questi ideali, chi è che educa e a chi quella educazione debba servire: non a coloro che sono stati educati. E i nostri ideali? Anche quelli di noi che nella brutalità, nella barbarie, scorgono il male maggiore parlano, come abbiamo veduto, soltanto di educazione, soltanto di interventi sullo spirito, comunque, di nessun altro genere di interventi. Parlano di educazione al bene. Ma il bene non verrà dall’esigenza di bene, di bene in qualsiasi circostanza, persino nelle peggiori circostanze, così come la brutalità non è venuta dalla brutalità.
Personalmente non credo alla brutalità per la brutalità. Bisogna proteggere l’umanità dall’accusa di essere per la brutalità indipendentemente dal fatto che essa sia un buon affare. È una spiritosa distorsione, quella del mio amico Feuchtwanger quando afferma che la volgarità vien prima dell’interesse personale. Ha torto. La brutalità non viene dalla brutalità ma dagli affari che senza di essa non si possono più fare.
Nel piccolo paese dal quale vengo c’è una situazione meno temibile che in molti altri paesi. Ma ogni settimana vi si distruggono 5.000 capi di bestiame della qualità migliore. È una brutta cosa, ma non è manifestazione d’una improvvisa sete di sangue. Se così fosse, la cosa sarebbe meno brutta. La distruzione di bestiame e la distruzione di cultura non sono originate da istinti barbarici. In entrambi i casi si distrugge una parte di beni non senza fatica prodotti, perché sono divenuti un peso. Di fronte alla fame che impera in tutti e cinque i continenti misure simili sono indubbiamente dei crimini, ma non hanno nulla a che fare con le tendenze malvagie, assolutamente. Nella maggior parte dei paesi del mondo ci sono oggi situazioni sociali tali che crimini di ogni specie vengono altamente premiati mentre l’esercizio della virtù costa molto caro. «L’uomo buono è indifeso e l’indifeso è bastonato a morte. Ma con la brutalità non può avere tutto. La volgarità programma se stessa per diecimila anni. Il bene ha bisogno invece di una guardia del corpo; e non ne trova».
Guardiamoci dal chiederla agli uomini! Facciamo in modo, anche noi, di non chiedere nulla di impossibile! Non esponiamoci a lanciare anche noi appelli all’umanità, perché faccia cose sovrumane e cioè sopporti con l’esercizio di elevate virtù situazioni terribili che certo possono essere mutate ma che poi non lo saranno! Non parliamo soltanto per la cultura!
Si abbia pietà della cultura ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando gli uomini sono salvi.
Non lasciamoci trascinare alla affermazione che gli uomini esistano per la cultura e non la cultura per gli uomini! Questo ricorderebbe troppo il costume dei grandi mercati dove gli uomini esistono per il bestiame da macello e non il bestiame da macello per gli uomini!
Compagni, pensiamo alla radice del male!
Un grande insegnamento, che sul nostro ancor molto giovane pianeta penetra sempre più grandi masse di uomini, afferma che la radice di tutti i mali sono i nostri rapporti di proprietà. Questo insegnamento, semplice come tutti i grandi insegnamenti, è penetrato in quelle masse d’uomini che più soffrono degli attuali rapporti di proprietà e dei barbari metodi con i quali quei rapporti vengono difesi. È messo in pratica in un paese che rappresenta un sesto della superficie terrestre, dove gli oppressi e i nullatenenti hanno preso il potere. Là non c’è più distruzione di generi alimentari né distruzione di cultura.
Molti di noi scrittori che hanno sperimentato la crudeltà del fascismo e ne sono inorriditi non hanno ancora capito questo insegnamento, non hanno ancora scoperto la radice della brutalità che li atterrisce. Corrono sempre il rischio di considerare le crudeltà del fascismo come crudeltà non necessarie. Tengono ai rapporti di proprietà perché credono che per difenderli non siano necessarie le crudeltà del fascismo. Ma per mantenere i rapporti di proprietà esistenti quelle crudeltà sono necessarie. Con questo i fascisti non mentiscono. Con questo essi dicono la verità. Quelli fra i nostri amici che di fronte alle crudeltà del fascismo sono atterriti quanto noi ma vogliono mantenere immutati i rapporti di proprietà o rimangono indifferenti di fronte alla loro conservazione non possono condurre vigorosamente e abbastanza a lungo la lotta contro la barbarie dilagante perché non possono suggerire né promuovere le condizioni sociali che rendono superflua la barbarie.
Quelli invece che cercando la radice del male si sono imbattuti nei rapporti di proprietà, sono discesi sempre più profonda mente, attraverso un inferno di atrocità sempre più profonde, finché sono giunti là dove una piccola parte dell’umanità aveva ancorato il proprio spietato dominio. Essa lo ha ancorato in quella proprietà del singolo individuo che serve allo sfruttamento del prossimo e che viene difesa con le unghie e coi denti, a prezzo dell’abbandono di una cultura che non si offre più in sua difesa o che non ne è più capace, a prezzo dell’abbandono puro e semplice di tutte le leggi della convivenza umana per le quali l’umanità tanto a lungo e con disperato coraggio ha combattuto.
Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!
Questo volevo dire a proposito della lotta contro la dilagante barbarie perché venga detto anche qui oppure perché a dirlo sia stato anche io.