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giovedì 7 novembre 2013

LE MUR di Yilmaz Guney

Il film è girato in un'abbazia francese, ma intende rappresentare il carcere di Ankara in cui lo stesso regista fu detenuto. Nello stesso carcere tre sezioni: quella maschile, quella femminile e quella minorile. A dividerle il muro del titolo. Le immagini grezze del regista, che tornava a dirigere in prima persona un film dopo anni di sceneggiature scritte da dietro le sbarre, raccontano la vita dei tre gruppi, con particolare attenzione ai bambini. È fra loro infatti che il dolore sa mostrarsi con maggiore grado di crudeltà e di gratuità. Le ispezioni e le percosse delle guardie, i ragazzini costretti a mangiare le proprie pulci, gli abusi sessuali, i lavori forzati e ancora le percosse, le vessazioni. Infine la morte di un ragazzino, freddato mentre cerca di fuggire: è la goccia che fa traboccare il vaso; la rivolta si organizza e si barrica all'interno delle celle per chiedere trattamenti più umani. Durante la vita di cella il popolo d'Anatolia ci è mostrato con tutte le sue tradizioni, i canti, le melodie festanti o sofferenti, i balli, le superstizioni, i cibi. Insomma vedendolo resistere nel chiuso della prigione, Güney ce lo fa immaginare com'è al di fuori, costretto da catene sociali, da vincoli d'onore, ma anche depositario di tradizioni secolari, rurali/orali, intatte e vitali. Nel frattempo le esercitazioni e i cori delle guardie e l'intrusione audio di spot commerciali radiofonici, ci danno il senso dell'ipocrisia della società, che negli anni in cui il film è girato associava militarizzazione e ingresso nel luccicante regno del consumismo occidentale
Lo stile di Guney è grezzo, come dicevamo, non ha grandi rifiniture artistiche, anche se a volte si riconosce un certo gusto per la composizione dell'immagine. Con naturalezza offre immagini cattive, spietate, marchiate a fuoco da un sapore di realtà che è difficile non avvertire allo stomaco. Ricordiamo il piano sequenza condotto dal punto di vista di una carriola, fisso sul volto di un prigioniero di dodici anni, sofferente mentre va al lavoro forzato in inverno, schifato da tutti i compagni per il fatto di non aver avuto il coraggio di denunciare gli abusi subiti; oppure il primo piano violentissimo di un parto, i tonfi delle percosse, i dettagli di ematomi, cerotti, sangue rappreso. Un pulp neo-realista, senza artificio narrativo. Un film denuncia e un film poesia al contempo, di quelle poesie scritte con parole normali, non ricercate, ma dirette a tutti, alla gente, alle coscienze più che ai sensi estetici. Gli attori vengono dagli arabi delle periferie francesi e dai turchi delle periferie tedesche; era probabilmente gente che sapeva come muoversi all'interno delle pareti di un carcere.

Al di là dell'immaginario filmico, scendendo nel territorio del reale, nella cronaca, nella storia, reportage, inchieste, articoli e quant'altro testimoniano che la situazione delle carceri turche non è completamente cambiata, anche se passi in avanti si sono fatti registrare. Il film si basa sullo stato di barbarie presente nei penitenziari Turchi degli inizi anni '80, che tutt'oggi persiste. Dove bambini, donne e uomini, vivono alla mercé di inumani secondini e feroci egemoni statali, patrocinati da una legge che non possiede occhi né orecchie. Le carceri sono ancora il luogo della repressione del dissenso politico e ideologico, il luogo della ricerca di un consenso forzoso, luogo di contenimento delle problematiche sociali (il famoso tappeto sotto cui si nasconde la polvere) e infine luogo di negazione dei fondamentali diritti umani.

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