Il sentirsi realmente vivi e il senso di appartenenza non hanno quasi cittadinanza in una società in cui le classi col più alto tasso di crescita sono quella dei senzatetto e quella dei detenuti. La vita quotidiana è fatta sempre più di disperazione, depressione e alienazione, intervallate da notizie sull’ultima ondata di omicidi seriali o la più recente catastrofe ecologica globale, consumate come orribili forme di distrazione del vuoto.
Guy Debord ha espresso questa situazione con chiarezza: “Dovrebbe essere ormai chiaro che la condizione di servitù, d’ora innanzi, vuole essere amata di per se stessa, e non più in quanto portatrice di un vantaggio estrinseco. Un tempo poteva ancora essere ritenuta una forma di protezione, ma ora non protegge più da nulla”. Persino gli apparati repressivi si trovano a dover ammettere che si sia giunti a questo: Forbes, organo del capitale finanziario americano, commemorò il proprio settantacinquesimo anniversario con una storia di copertina su Com’è possibile che ci sentiamo così male se le cose vanno tanto bene? La comunità degli psicologi in generale, che non riconosce altra realtà al di fuori dell’individuo, vede messa in discussione la negazione e l’illusione che la caratterizza, ironicamente, proprio dal definitivo impoverimento della dimensione del privato. Appare sempre più chiaro come la scelta sia tra una brama di servitù e una rottura qualitativa con l’intero campo d’azione dell’alienazione.
La realtà attuale è diventata impossibile, e continua a perdere credibilità. Dobbiamo comportarci da outsider, non farci rappresentare, non investire nulla in questa marcia verso la morte che ci chiedono di perpetuare. Il piacere supremo sarà la distruzione di ciò che ci sta distruggendo, sarà abbracciare lo spirito dei Situazionisti, che così replicavano a chi domandava loro in che modo avrebbero distrutto la cultura dominante: “In due modi: inizialmente in modo graduale, poi all’improvviso”.
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