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giovedì 30 aprile 2015

1° MAGGIO: IL LAVORO NON SI FESTEGGIA. SI ABOLISCE.

All'inizio del secolo la brutalità del lavoro salariato e la logica spietata delle merci diede il via ad appassionanti ammutinamenti anticapitalisti. Il proletariato individuando il lavoro come fonte di tutte le sue miserie poneva in pratica la sua distruzione. Oggi gli eredi degli artefici dell'annientamento proletario nel periodo fra le due guerre (p.c.i., sindacati, etc.) spacciano il lavoro come ultimo ritrovato ai mali del proletariato. Il dominio dei burocrati-stalinisti è fondato sulla menzogna e non possono tentare di conservarlo se non continuando a mentire. Attenti burocrati stalinisti! Il volto ghignante del proletariato che risorge ridicolizzerà tutti i tentativi di recuperarlo alla logica della merce e del lavoro. Sadico come dovrà essere il Proletariato se la prenderà per primo con quelli che vogliono parlare per lui senza essere lui. La liberazione dal lavoro è la condizione preliminare per superare la società dei consumi e per l'abolizione nella vita di tutti della separazione tra tempo di lavoro e tempo libero, settori complementari di una vita alienata in cui si proietta all'infinito la contraddizione interna della merce tra valore d'uso e valore di scambio. La concentrazione capitalistica dei mezzi materiali e ideologici di produzione e al sua distribuzione sociale si trova di fronte sempre più minacciosa l'insoddisfazione crescente di tutti. La società del capitale promette, ma non può mantenere. Non può mantenere alcuna promessa di felicità poiché il suo fine stesso (produzione) ed i suoi mezzi (lavoro, etc.) sono chiaramente oppressivi. I proletari stanno lanciando la sfida alla società e non per una società diversa o migliore ma per l'abolizione di ogni società (intesa come agglomerato di individui-merci retti da uno scopo ad essi superiori). La felicità in armi esige di prendere il posto dell' infelicità oggi esistente. La distruzione del dominio del capitale e dei suoi strumenti è l'unica festa che il proletariato può desiderare. E' tempo di iniziare concretamente la lotta per un 1° maggio permanente, cioè per l'abolizione del lavoro e del tempo capitalista.

CHI AMA IL LAVORO
E' UN MASOCHISTA
O SI CHIAMA CAPITALE

L'ULTIMA INTERNAZIONALE
(maggio 1972)

Il problema del rapporto tra mezzi e fini

La divergenza sul problema del rapporto fra i mezzi e i fini tra marxisti e anarchici, non era una disputa di natura tecnico-organizzativa.
In realtà essa investiva per intero la questione teorica fondamentale, cioè quella relativa alla valutazione del principio di autorità e del principio di libertà. Per gli anarchici questi principi erano costitutivi e autonomi, per i marxisti erano forme di espressioni derivate da altre strutture, precisamente quelle economiche. Nella visione anarchica l’abbattimento della società capitalistico-borghese non implicava automaticamente la realizzazione del socialismo (inteso come abolizione delle classi e la realizzazione immediata della libertà e dell’eguaglianza). Il principio di autorità, se non combattuto di per se stesso, poteva sempre ricostituirsi sotto altre forme storiche e sotto altre funzioni sociali. Nella visione marxista, invece, poiché si affermava, secondo una logica deterministico-scientifica, che il rovesciamento del capitalismo avrebbe aperto inevitabilmente la strada al socialismo, la realizzazione positiva della libertà e dell’eguaglianza era data come un semplice pressoché implicito effetto. Così, mentre l’anarchismo perveniva ad individuare l’autonomia strutturale delle forme politiche del dominio, nel senso che esse erano viste indipendentemente dal soggetto storico che le impersonava o che le avrebbe potuto impersonare, il marxismo continuava ad affermare la loro assoluta dipendenza rispetto alle condizioni socio-economiche e perciò storiche del progresso umano.
Da qui la radicale contrapposizione sulla valutazione della natura dello Stato, e in genere del potere e della politica. A giudizio degli anarchici era utopistico pensare, come pensavano Marx ed Engels, che lo Stato sarebbe venuto meno, per morte propria, con il puro e semplice instaurarsi dei rapporti di produzione socialisti. Utopistico era pensarlo, appunto perché lo Stato era ben lungi dall’essere solo un apparato sovrastrutturale determinato ed espresso dal sistema capitalista. Se lo sfruttamento economico, scriveva Bakunin: “produce la schiavitù politica, lo Stato questo a sua volta riproduce e perpetua la miseria quale condizione della sua esistenza”. Lo Stato quindi mai e in nessun modo si sarebbe estinto. Esso andava abolito.


Sradicati da ogni appartenenza

Una fragorosa risata sarebbe la risposta adeguata a tutti i gravi  problemi che vengono sollevati quotidianamente. Prendiamo la più dibattuta: non esiste alcun “problema dell’immigrazione”. Quanti ancora  crescono dove sono nati, abitano nei luoghi in cui sono cresciuti e vivono dove hanno vissuti i propri antenati? E i figli di quest’epoca  appartengono più ai loro genitori o alla televisione? In verità siamo stati  sradicati in massa da ogni appartenenza, non siamo più da nessuna  parte. Donde un’innegabile sofferenza, oltre a un’inedita disposizione al turismo. La nostra è una storia di colonizzazioni, migrazioni, guerre, esili; la storia della distruzione di ogni radicamento. Di tutto quanto ci ha resi  stranieri in questo mondo, ospiti nella propria famiglia. L’educazione ci  ha alienati dalla nostra lingua, il varietà dalle nostre canzoni, la  pornografia di massa dalle nostre carni, la polizia dalle nostre città, il lavoro salariato dai nostri amici. A tutto ciò, si aggiunge un  lavorìo feroce e secolare di individualizzazione: il potere statale annota,  compara, disciplina e separa i propri sudditi fin dalla loro infanzia, schiacciando istintivamente ogni solidarietà, affinché non resti che la mera cittadinanza, la pura appartenenza fantasmatica allo stato. Più di ogni altro, il cittadino è lo spossessato, il miserabile. Il suo odio per lo straniero si confonde con l’odio di sé come straniero. La sua invidia per i quartieri popolari, frammista al terrore, esprime solo il suo risentimento per tutto ciò che ha perduto. Non può non invidiare i cosiddetti quartieri-ghetto dove ancora persiste qualche margine di vita in comune, di relazione tra gli esseri, di solidarietà non statale, di economia informale,di organizzazione non ancora separata da chi si organizza. Insomma, siamo giunti a un tale livello di privazione che l’unico modo di sentirsi europei consiste nell’imprecare contro gli immigrati, contro chi è più visibilmente straniero come noi. In questo paese, gli immigrati  detengono una singolare posizione di sovranità: se non ci fossero, forse gli europei non esisterebbero più.

venerdì 24 aprile 2015

Torino 24 aprile 1945

Il 24 aprile 1945 il compagno Ruju, partigiano della 23a Divisione autonoma “Sergio De Vitis”, fu inviato ad Avigliana alle porte di Torino, per organizzare la resistenza e la difesa di alcuni stabilimenti industriali.
Giunto sul posto, mentre cercava di contattare alcuni giovani antifascisti incrocia una pattuglia tedesca e approfittando di un attimo di disattenzione dei nazisti li cattura e li porta a Giaveno dove già si trovavano altri tedeschi arrestati.
Quando tornò ad Avigliana gli si fece incontro il parroco che lo implorò di restituire i tre prigionieri perché altrimenti la città sarebbe stata distrutta alle due del pomeriggio di quella stessa giornata.
Recatosi subito al comando tedesco accompagnato da due pubblici funzionari, il compagno Ruju ebbe modo di parlare con il comandante; questi lo pregò di liberare i tre soldati catturati perché, altrimenti, sarebbe stato costretto ad ordinare la distruzione della città secondo gli ordini ricevuti dalla 5a divisione Alpina. Il compagno Ruju gli fece notare che 10.000 partigiani circondavano il centro e che allo scadere di 30 minuti sarebbero passati all’attacco; non solo, ma gli eventuali tedeschi superstiti sarebbero stati considerati criminali di guerra e quindi passati per le armi.
Tutto ciò era un bluff, ed i 10.000 partigiani esistevano solo nella mente di Ruju. Ma il comandante gli credette e si arrese con i 500 uomini del suo presidio, consegnando tutte le armi ai partigiani.
Per questo episodio lo Stato democratico volle decorare Ruju con una croce al valor militare, ma il partigiano rifiutò l’inutile decorazione come fecero altri partigiani anarchici per testimoniare nuovamente la loro fede anarchica.

giovedì 23 aprile 2015

Il potere delle parole

Mi batterò fino alla fine per la felicità; contro il terrore, il terrorismo intellettuale, l’indifferenza e la perdita dell’unico tesoro che dobbiamo preservare ad ogni costo: la libertà. 
La libertà di stare al mondo come desideriamo, di pensare, di ridere, di dare, di scambiare e di amare senza vincoli tutto ciò e tutti coloro che amiamo..
Cantare è la mia arma, il mio modo di difendere la libertà. 
Credo nell’importanza delle parole, nel loro potere.
Scegliere un testo e cantarlo è un atto di responsabilità; scelgo di mettermi al servizio dei testi, di interpretarli, di cantarli per renderli più accessibili. Le parole sono autonome, io faccio del mio meglio per aiutarle a entrare nella vita vera.
Un giorno, a Parigi, ho sentito Si tu t’imagines fischiettata da un operaio che lavora su un ponteggio. Mi sono venute le lacrime agli occhi. È stata la ricompensa più bella.
La poesia era là, scesa in strada. Non era una prerogativa dei ricchi, dei colti, di quelli che hanno studiato. Ero riuscita a trasmettere un po’ di poesia e a renderla più vicina, accessibile a tutti.
Non ho mai avuto timore di presentare idee forti, testi rivoluzionari, pungenti o provocatori, sensuali, maliziosi, erotici o persino sessuali.
Ogni genere di censura mi disturba. Interpretando quelle opere, rivendico il diritto alla libera espressione. Il palcoscenico è una tribuna che mi viene concessa, e me ne servo. Ringrazio, ma me ne servo. Non sono innocente.
(Juliette Gréco)


Gli Arditi del Popolo

Questo movimento, sorto nel 1920 per iniziativa di elementi eterogenei, si sviluppò rapidamente assumendo caratteristiche marcatamente antifasciste ed antiborghesi, e fu caratterizzato da un marcato decentramento autonomo delle organizzazioni locali. Gli Arditi del Popolo assunsero quindi colorazioni politiche talvolta differenti da un posto all’altro, ma sempre li accomunò la coscienza della necessità di organizzare il popolo per resistere violentemente alla violenza delle camicie nere. Gli anarchici aderirono entusiasticamente alle formazioni degli Arditi e spesso ne furono i promotori individualmente o collettivamente; per citarne qualcuno basti pensare che in maggioranza anarchici furono i difensori di Sarzana e che a Parma, fra le famose barricate erette per resistere agli assalti delle squadracce di Balbo e Farinacci, ve n’era una tenuta dagli anarchici.
Completamente diverso fu l’atteggiamento sia dei socialisti sia dei comunisti (questi ultimi costituitisi in partito nel gennaio 1921). Nonostante la vasta e spontanea adesione di molti loro militanti agli Arditi del Popolo, entrambe le burocrazie partitiche presero le distanze e cercarono di sabotare lo sviluppo di quel movimento. Gli organi centrali del neonato P.C. d’Italia, giunsero al punto di imporre ai propri iscritti di evitare qualsiasi contatto con gli Arditi, contro i quali fi imbastita anche una campagna di stampa a base di falsità e di calunnie. Intervistato circa due anni fa alla televisione il comunista Umberto Terracini ha cercato ancora di giustificare quella scelta politica. E ancora oggi, come allora i nostri compagni, vediamo proprio in quella scelta un esempio tipico della volontà comunista di subordinare la lotta antifascista alla coincidenza con le proprie mire di egemonia sul movimento operaio. È evidente che questa critica alla politica dei vertici dei partiti di sinistra di fronte alle violenze fasciste non coinvolge i militanti di base, che – anche su posizioni molto differenti  - dettero il loro contributo di lotta e di sangue alla lotta contro il fascismo.
Il disfattismo social-riformista ed il settarismo comunista resero impossibile una opposizione armata generalizzata e perciò efficace al fascismo ed i singoli episodi di resistenza popolare non poterono unificarsi in una strategia vincente.

Architettura nuova per una civiltà nuova

Non si può parlare di architettura nuova se essa non esprime una nuova civiltà (e chiaro che non esiste né civiltà né architettura da molti secoli, ma solo degli esperimenti, di cui la maggior parte sono falliti: si può parlare dell'architettura gotica, ma non esiste architettura marxista o capitalista, benché questi due sistemi rivelino tendenze similari, scopi comuni).
Ciascuno ha dunque il diritto di domandarci su quale abbozzo di civiltà noi vogliamo fondare un'architettura. Richiamo rapidamente i punti di partenza di una civiltà:
una nuova concezione dello spazio (cosmogonia religiosa o meno).
una nuova concezione del tempo (numerazione a partire da zero, diversi modi di svolgimento del tempo).
una nuova concezione dei comportamenti (morale, sociologia, politica, diritto. L’economia è solo una parte delle leggi del comportamento che una civiltà accetta).
Questa visione nuova del tempo e dello spazio che sarà la base teorica delle future costruzioni non è ancora a punto e non lo sarà mai del tutto prima di sperimentare i comportamenti in città riservate a questo effetto, dove saranno riuniti in maniera sistematica, oltre agli edifici indispensabili ad un minimo di comfort e di sicurezza, costruzioni cariche di un grande potere di evocazione e di influsso, degli edifici simbolici raffiguranti i desideri, le forze,  gli avvenimenti passati, presenti e futuri. 
(Gilles Ivain) 

giovedì 16 aprile 2015

Non siamo depressi, siamo in sciopero

L'Occidente, patria degli ansiolitici, paradiso degli antidepressivi, Mecca della nevrosi, è al tempo stesso campione di produttività oraria.  La malattia, la stanchezza e la depressione possono essere considerati i sintomi individuali di ciò da cui bisogna guarire. Esse agiscono in  funzione del mantenimento dell’esistente, del docile adeguamento a  norme demenziali, della modernizzazione delle nostre stampelle. Compiono in noi la selezione tra le inclinazioni opportune, conformi e produttive, e quelle di cui occorre diligentemente elaborare il lutto. Bisogna saper cambiare. Ma, in quanto fatti, i nostri fallimenti possono anche condurre allo smantellamento dell’ipotesi dell’Io. In tal modo, divengono
atti di resistenza nella guerra in corso, ribellioni e centri di energia contro ciò che cospira per normalizzarci e amputarci. L’Io non è ciò che in noi è in crisi, ma la forma che cercano di imprimerci. Si vuole fare di noi degli Io ben delimitati, ben separati, classificabili e censibili per qualità, in breve: controllabili; in realtà siamo creature tra le creature, singolarità fra i nostri simili, carne viva che tesse la carne del mondo. Contrariamente a quanto ci ripetono fin da bambini, l’intelligenza non  consiste nel sapersi adattare; tale è, al massimo, l’intelligenza degli schiavi. Il nostro essere disadattati, la nostra stanchezza, costituiscono  un problema solo dal punto di vista di chi ci vuole sottomettere. Essi indicano piuttosto un punto di partenza, un punto di congiunzione per  inedite complicità. Mostrano paesaggi molto più instabili, ma  infinitamente più condivisibili di tutte le fantasmagorie conservate da questa società.
Non siamo depressi, siamo in sciopero. Per chi rifiuta di  gestirsi, la depressione non è uno stato, ma un passaggio, un arrivederci, un  passo a lato verso una disaffezione politica rispetto alla quale l’unica conciliazione possibile è quella medicale e poliziesca. Perciò questa società non esita a imporre il Ritalin ai bambini troppo vivaci, a moltiplicare le forme di dipendenza farmacologica e a diagnosticare
disturbi comportamentali sin dai tre anni.

È l’ipotesi dell’Io ad incrinarsi in ogni dove.

Quale autonomia operaia?

Gli incidenti di sabato con lo scontro a fuoco con la polizia ripropongono con urgenza la necessità di aprire un dibattito all’interno dell’area dell’autonomia. 
La nostra posizione è, e lo è stata anche in passato, notevolmente critica sul modo di operare di una serie di forze organizzate all’interno dell’area, non certo sull’obbiettivo di tali proposte, cioè passare dall’area a un movimento organizzato dell’autonomia, ma sul metodo seguito. Si sta riproponendo infatti lo stile tipico del gruppo dalla critica del quale numerosi collettivi autonomi avevano preso origine: le assemblee formali convocate in statale in cui tutto era già da prima deciso, il corteo in occasione dello sciopero generale, quello del 1 maggio, sono esempi di come più che a un reale confronto con le varie situazioni, le scadenze vengono usate a fini esclusivamente di organizzazione. Il porsi appunto come gruppo dirigente, arrogandosi il diritto di definirsi “autonomia operaia” è secondo noi politicamente perdente in quanto fonte di atrofizzazione per la crescita del movimento per il quale il leaderismo e l’espropriazione della elaborazione politica sono ferri vecchi. 
Oltre tutto diventa politicamente suicida quando la stessa logica di prevaricazione abbinata a una concezione insurrezionale dello scontro di classe nella fase attuale viene applicata nelle scadenze di piazza in cui tutto il movimento è coinvolto. 
Lo Stato ha scelto, con la piena collaborazione dei revisionisti, il terreno dell’ordine pubblico, della criminalizzazione, per isolare l’opposizione che nelle fabbriche e nel territorio si sta organizzando contro il tentativo di ricostruzione dei margini di profitto e produttività del sistema. Lo Stato ha scelto: il terreno, la piazza, il momento, la grossa confusione esistente all’interno del movimento, gli strumenti, la polizia e i C.C. che sparano. 
Accettare questo terreno di scontro che coinvolge l’intero movimento quando ancora chiarezza non esiste sull’uso degli strumenti e più in generale sul problema dell’autodifesa e secondo noi puro avventurismo in quanto porta all’isolamento, in primo luogo del progetto dell’autonomia, e favorisce lo stato nel processo di normalizzazione. 
Nostro compito è la rottura del ghetto, attraverso l’intervento politico nelle situazioni con una pratica della forza legata alla situazione stessa che abbia ben presente i livelli di avanguardia e di massa per rompere la falsa immagine di quelli della P38 che l’autonomia rischia di assumere. 
A nessuno è più concesso decidere per il movimento né praticare la politica del tanto peggio tanto meglio soprattutto quando questo porta a bruciare e a travisare un patrimonio storico di esperienze, analisi, organizzazione, di situazioni politiche che nessuno può negare alle forze dell’area dell’autonomia, neanche chi, ormai ischeletrito dalla incomprensione dei nuovi fenomeni sociali emergenti in questa fase storica, pensa di esorcizzare o risolvere tutte le contraddizioni a colpi di chiave inglese e di denunce delatorie. 
Isoliamo chiunque seguendo una logica di prevaricazione attraverso scelte avventuriste, oggettivamente si inserisce nel progetto di normalizzazione portato avanti dal governo con la piena collaborazione dei revisionisti.

Collettivi Comunisti Autonomi 
C.S. Argelati 
C.S. Panettone 
Centro di Lotta Contro il Lavoro Nero “Carlo Sponta” 
Compagni autonomi del Romano-Vigentina 

(Volantino, Milano, maggio 1976)

Critica della vita quotidiana per l’autogestione generalizzata

Di fronte alla società dello spettacolo che ha integrato in un magma alienante le diverse qualità di tutti i poteri del passato, la critica della vita quotidiana si manifesta come la sola vera pratica soggettiva del proletariato rivoluzionario. In ogni atto di resistenza all’addomesticamento che inquina ogni attività umana, dal gioco all’amore, passando per ogni creazione di beni o di bellezza, emerge la volontà di vivere dell’animale umano sulla via di diventare effettivamente un essere umano.
Comunque la si guardi, una tale critica ha come obiettivo politico l’autogestione soggettiva di ogni ambito di una vita quotidiana sottratta alla sua versione spettacolare. Ciò che collega questa critica pratica al suo obiettivo politico finale - l’autogestione generalizzata della vita quotidiana - è un processo storico di transizione in cui si esercitano gli ultimi essenziali atti di quella che fu la lotta di classe.
L’ultima ha come obiettivo centrale l’instaurazione di una democrazia diretta che lungi dal realizzare un’assurda dittatura del proletariato metta in gioco la libertà, l’uguaglianza e la fraternità non più a vantaggio di una nuova classe dominante ma per tutti indistintamente, appunto attraverso l’auto abolizione del proletariato come ultima classe della storia.
La continuità del potere è andata dal capo tribù al sacerdote, dai re agli imperatori e ai presidenti senza interruzione; si è avvalsa di monarchie e repubbliche e di ogni tipo di oligarchia fino alla democrazia rappresentativa che, pur essendo la più sublime, colta e affinata forma di diseguaglianza sociale sperimentata, conserva comunque le stigmate oclocratiche della corruzione, del nepotismo e dei privilegi che tiranneggiano una cospicua parte dei suoi sudditi. 
La democrazia diretta tende al minimo possibile di governo formale perché è il governo di tutti fondato sulla libertà di ciascuno.
Oggi, per la prima volta, l’ipotesi della democrazia diretta si pone oltre ogni avanguardia, non come un’utopia, ma direttamente come possibile atto concreto di auto abolizione positiva il quale, anziché indignarsi, finirà per rifiutare semplicemente di finanziare lo Stato gestito da politici corrotti e di pagare i banchieri che trafficano il Mercato promettendo il ritorno di un privilegio bieco.
Quarant’anni fa, la declamazione poetica del “vivere senza tempi morti e godere senza ostacoli” esprimeva, per esempio, l’esatto contrario dell’assuefazione alienata che spinge oggi gli schiavi che si credono liberi a godere come conigli eccitati da ogni feticcio mercantile, nel consumo di esseri e cose venduti come oggetti di un piacere fittizio ma redditizio. 
Il godimento della vita appartiene a una nobiltà poetica di signori senza schiavi, mentre l’edonismo della sopravvivenza rinvia alla ripetitiva eiaculazione precoce di ogni servitore volontario.

giovedì 9 aprile 2015

Il lavoro salariato come forma di produzione dominante

Abbiamo visto che dovunque il lavoro salariato cresce, la sua ombra, la servitù industriale, si espande. Il lavoro salariato come forma di produzione dominante e il lavoro domestico come modello ideale del suo complemento ombra non retribuito sono entrambe forme di attività senza precedenti nella storia o nella antropologia. Tali attività si sviluppano solo dove il potere dello Stato assoluto prima e quello dello Stato industriale poi hanno distrutto le condizioni sociali necessarie alla sussistenza. Esse si diffondono man mano che le comunità vernacolari, piccole e diversificate, vengono rese sociologicamente e legamente impossibili, in un mondo in cui gli individui, nel corso di tutta la loro vita, sopravvivono solo dipendendo dalla educazione, dai servizi sanitari, dai trasporti e da altri  pacchetti forniti dai vari dispositivi di alimentazione meccanica della società industriale.

SANGUE NOSTRO di Susana Chavez

Sangue mio,
di alba,
di luna tagliata a metà
del silenzio.
della roccia morta,
di donna in un letto,
che salta nel vuoto,
Aperta alla pazzia.
Sangue chiaro e nitido,
fertile e seme,
Sangue che si muove incomprensibile,
Sangue liberazione di se stesso,
Sangue fiume dei miei canti,
Mare dei miei abissi.
Sangue istante nel quale nasco sofferente,
Nutrita dalla mia ultima presenza.

Susana Chavez nata a Ciudad juarez (Messico), giornalista, poetessa, attivista per i diritti umani. 
 È conosciuta come autrice dello slogan "non una morta di più”, usato dagli attivisti per manifestare contro il massacro delle donne di Juárez, dove dal 1993 in poi centinaia di ragazze sono state sequestrate, violentate, torturate, uccise o sono semplicemente scomparse nel nulla. 
Il cadavere di Susanna Chavez è stato ritrovato nella sua cittadina natale, il 6 gennaio del 2011, mutilato della mano sinistra, seminudo e con la testa avvolta in un sacchetto di plastica. Il suo volto nascosto simbolicamente evoca la volontà di soffocare la sua voce per sempre. Susana era infatti impegnata a denunciare gli omicidi e le sue poesie venivano spesso lette durante le commemorazioni delle donne uccise.

Virgilia D ‘Andrea maestra, poetessa, anarchica

Una vita iniziata in modo tranquillo nella  gradevole e provinciale cittadina di Sulmona, negli Abruzzi, in una famiglia che pur se non ricca gode di una certa agiatezza. All’età di sei anni la sua infanzia  viene tragicamente interrotta: nello spazio di alcuni mesi perde la madre, il padre e due fratelli. Orfana e senza famiglia viene messa in un istituto religioso. Entro gli angusti confini nei quali vive, riesce comunque ad acquisire non solo un’educazione di buon livello, ma anche quello stimolo che la porterà verso l’anarchismo. Quando Gaetano Bresci uccide Umberto I nel 1900, Virgilia scoprirà, solo in seguito  attraverso le poesie di Ada Negri  il motivo che aveva spinto Bresci a quell’atto: una ritorsione per aver massacrato degli innocenti; e quest’atto la spinge verso i temi della giustizia sociale e l’anarchismo, e Bresci rimarrà sempre per lei una figura mitica. Dopo l’istituto religioso, Virgilia frequenta l’università di Napoli e, dopo aver finito gli studi, comincia ad insegnare. Ma la sua esistenza viene sconvolta prima dal terremoto del 1915 che s’abbatte sugli Abruzzi e su Avezzano in particolare e subito dopo l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale. Abbandona quindi l’insegnamento per la militanza sociale. Inizia partecipando alle agitazioni anti-interventiste e finisce diventando a tutti gli effetti una militante anarchica. È a Firenze, nel 1917, durante una riunione clandestina dell’Unione Sindacale Italiana (USI) nella quale viene riaffermata la posizione contro la guerra, che avviene l’incontro con Armando Borghi. S’innamorano quasi immediatamente e, come dice Borghi, «restammo uniti quindici anni di lavoro, di lotte, di ansie, di ostracismi, persecuzioni, carcerazioni,  esilii, immutati e legati sempre l’uno all’altra dall’affetto e dalla stima».  Virgilia scrive articoli per il giornale dell’USI, tiene conferenze, finisce in galera, rimpiazza Borghi come segretario dell’USI quando questi viene arrestato e, nei momenti di calma forzata, scrive poesie. Nel 1919 Virgilia incontra Malatesta e insieme a Borghi, diventa una delle sue più strette collaboratrici nel comune intento di portare a maturazione la rivoluzione sociale in Italia e di combattere il nascente fascismo. La prigione, l’assassinio di Rosa Luxemburg, l’insuccesso della rivolta spartachista in Germania, il fallimento
dell’occupazione delle fabbriche sono questi i temi affrontati nelle sue poesie, gli eventi che rafforzano e confermano il suo sogno di una società più giusta. La lezione di Bresci, il gesto vendicatore, è profondamente  incisa nel suo spirito. All’epoca del tragico attentato al teatro Diana non esita un istante a difendere l’azione fatta dai suoi compagni. C’è un notevole dibattito sui fatti del Diana nelle pagine della pubblicistica anarchica e Virgilia interviene più volte in difesa dei compagni e dell’etica del terrorismo rivoluzionario. L’avvento del fascismo impone a Virgilia D’Andrea e ad Armando Borghi di lasciare l’Italia, si rifugiano a Parigi dove Virgilia si immerge subito in un’intensa attività politica. Nel 1925 fonda e dirige la rivista Veglia. Continua ad appoggiare, anzi a celebrare, l’atto individualista e la violenza rivoluzionaria e canta le lodi di Mario Castagna, Ernesto Bonomini, Gino Lucetti, Sante Pollastro. Nel 1928, stanca e ammalata, parte per gli Stati Uniti dove si ricongiunge con Borghi. Scrive spesso su «L’Adunata dei Refrattari», battendosi come sempre a favore delle azioni anarchiche militanti in qualsiasi parte del mondo, così dunque per Severino Di Giovanni ed altri. A New York incontra l’ultimo emulo di Bresci che avrà occasione di conoscere personalmente: Michele Schirru, ospite spesso a casa sua e suo grande ammiratore. Nel 1933 muore a causa di un tumore maligno.

giovedì 2 aprile 2015

Ripensare al primitivo

La tecnologia non è mai neutrale, è sempre politica, è l’incarnazione della società. È falso sostenere che la tecnologia sia neutrale. Non lo è mai stata. La tecnologia è l’incarnazione della società, di ogni società in ogni epoca. Nella tecnologia si possono leggere le priorità e i valori che in una società sono dominanti. Gli odierni sistemi tecnici esprimono qualità di efficienza, distanziamento, una certa freddezza, inflessibilità, dipendenza dagli esperti. Qualcosa di umano viene fuori, ma che è stato ridefinito da un ambiente sempre più tecnologico. Comunità? Comunità virtuale. Non ci sono più valori comuni quando la comunità reale è stata erosa fino a quasi scomparire.
Quindi pensiamo che se deve esserci un futuro, questo dovrà essere primitivo. Cos’è il primitivo? È compito di ciascuno approfondirlo, riconnettersi letteralmente. Non è affatto un termine peggiorativo. Che dire di un mondo faccia a faccia? Che dire della comunità? Che è stata cancellata. Secondo gli indigeni la civilizzazione è la tomba della comunità. Alcuni pensano che ciò avvenga originariamente e principalmente attraverso due istituzioni sociali: divisione del lavoro/specializzazione, porre le persone sotto l’autorità effettiva di altri, dividere il sé in ruoli, ovvero la società di classe; addomesticamento, che potremo definire il peggiore errore, un cambiamento verso il controllo, il dominio della natura, e noi facciamo parte del processo. Una lenta, impercettibile accumulazione durata migliaia di anni. Nei fatti, l’origine della proprietà privata. Una traiettoria ininterrotta, che ha portato fino alla clonazione, all'ingegneria genetica, alla nanotecnologia.
Il primitivismo è la risposta sul piano spirituale così come a livello sociale o politico. Una vita e un mondo non globalizzati, rilocalizzati, radicalmente decentrati dovrebbero favorire il recupero dell’integrità, dell’immediatezza, del contatto diretto con nostra madre Terra. Questo allontanamento dal mondo industriale sembra francamente inimmaginabile. Ma sappiamo che l’attuale traiettoria è disastrosa. Questo cambiamento ha la capacità di ispirare, di essere una visione di vita, di salute, di comunità.

IL DISERTORE E I NOMADI di Juro Jakubisko

Tre episodi sul tema della guerra e della violenza.
Il primo si svolge sul finire della prima guerra mondiale, quando un disertore zigano, nauseato delle atrocità del fronte, torna al paese in cerca di pace e invece viene ucciso con un amico degli ussari, sopraggiunti a reprimere una rivolta anarchica che ha insanguinato il villaggio. Il secondo è ambientato nel ’45, e racconta a suo modo il dramma della vita contadina, straziata dai partigiani e dai soldati sovietici che devastarono, in cerca di eroi, la terra e l’anima della Slovacchia con alterni massacri. Ne terzo, datato all’indomani d’una esplosione nucleare, gli uomini superstiti si trucidano a vicenda. La Morte resta disoccupata, ed essa stessa finalmente muore.
Lo slovacco Juro Jakubisko (1938) è uno dei registi più dotati tra quelli formatisi nell'ambito della 'Novà vlna', la straordinaria vague cinematografica praghese degli anni '60. La sua propensione per il disegno e la pittura sembra destinarlo all'Accademia di Belle Arti, ma il caso lo spinge a iscriversi alla FAMU, la fucina di talenti nella quale si diploma nel 1965 con "Cekají na Godota" [Aspettando Godot]. Nel 1967 esordisce nel lungometraggio con "Kristove roky" [Gli anni di Cristo]. Ma è con "Il disertore e i nomadi" [Zbehovia a pútnici, 1968], premiato a Venezia e Sorrento, che il suo estroso e personalissimo modo di fare cinema si impone a pubblico e critica di tutto il mondo. 
Realizzato in un periodo di drammatici eventi politici (nel 1968 i carri armati sovietici invadono la Cecoslovacchia) Il disertore e i nomadi è un'amara parabola sulla follia della guerra.
 Il disertore è i nomadi è un fim sconcertante, a tratti bellissimo, per l’esuberanza visiva con cui mescola toni teneri e crudeli su sfondi scenografici allucinati, ma la sua vera grandezza consiste nell’unità d’ispirazione raggiunta fra la rinunzia al mandato propagandistico che non è affatto una dismissione ideologica e il delirio stilistico chiamato a pronunciarla. Jakubisko ha un’idea cupa e tetra, ma insieme eccitante, della storia, che vede dominata dal trono della Morte, figlia del Dio della Violenza e nutrice di reciproche stragi. La conferma gli viene da tre momenti, corrispondenti ai tre episodi del film in origine suddiviso in due medio metraggi in cui l’umanità è condotta ad autodistruggersi dall’assurda bestialità della natura umana in guerra. Detto ciò, diremo che "Disertore e nomadi" è un affresco di vasto respiro, che parte da aspre pennellate di vita contadina per arrivare alla distruzione cosmica, e ciò - attraverso episodi che hanno sempre il pregio della presa emozionale e spettacolare - componendo un tutto unico, l'espressione del mondo del regista anelante alla giustizia e alla spiritualità, atterrito di fronte alla violenza, appassionato degli uomini e pessimista sul loro avvenire. Un film, questo, da non raccontare, ma da non perdere. 


Clemente Duval espropriatore

Duval rubò. Per vivere, per mangiare, senza porsi problemi di alcun genere, con l'unica consapevolezza di non avere alternative. Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi franchi sottratti dal cassetto mentre l'impiegato era assente, e gli andò bene. Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso luogo, ma venne sorpreso e acciuffato. Il risultato immediato fu la prigione e l'abbandono, ormai definitivo, da parte della moglie. Ma non fu l'unico né il più importante. Quel primo contatto con l'illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo della sostanziale legittimità del furto (o "riappropriazione individuale", come si diceva allora) ma della possibilità che esso divenisse un mezzo di lotta. Un mezzo, si badi, non un fine a sé stante. Ché proprio in questa concezione, accettabile o no che fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la grandezza d'animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando per rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur comprensibile), convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi averi, senza domandarsi cosa bisognasse farne dopo. Duval, al contrario, vedeva nel furto solo uno strumento per finanziare l'attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con la borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La sua, fu una lotta solitaria. Dopo i primi tentativi inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la propria tragedia personale, trovando in essa il punto di partenza per una visione più ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò attivamente a fare propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a Parigi, e si rese conto di essere come in guerra. Una guerra condotta senza esclusione di colpi, senza convenzioni internazionali che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico fair-play. Ogni rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero si trovava di fronte i fucili dell'esercito ed erano morti e feriti, ogni pubblica manifestazione di dissenso era l'occasione per arresti di massa (ed era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval pensò che non si potesse fare altro che rispondere alla violenza con la violenza. E, perciò, rispose. Una fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus, una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky dove egli stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi dove lo sfruttamento più disumano veniva consumato, dove gli operai sputavano la salute 14 ore al giorno in cambio di quattro miserabili franchi, dove il privilegio più indegno si formava e si consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati dall'esplosivo. È in questo periodo che nasce nell'iconografia del regime, la figura dell'anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore dei torti proletari, incubo del borghese e del benestante. La notte del 5 ottobre 1886, Duval si introdusse nell'appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed egli poté agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli oggetti preziosi che riuscì a trovare e devastò quanto fu costretto, per il peso o l'ingombro, a lasciare sul luogo. Andandosene, involontariamente appiccò il fuoco alla casa. Il danno, tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi, una bella somma che contribuì a dare una certa risonanza all'avvenimento. La polizia non tardò a scoprire il responsabile. I gioielli espropriati, messi in vendita troppo presto, lasciavano dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno permise di risalire ai ricettatori e quindi a Duval.