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giovedì 21 giugno 2018

Il ’68 … L’internazionalismo e la guerra del Vietnam (Capitolo XXV)

 La guerra che si combatteva in Indocina non era solo piccola e vincente, ma condotta anche mettendo in gioco le risorse, i valori e i saperi di un’altra cultura. Gli anni dell’interminabile conflitto indocinese furono anche la grande stagione delle indipendenze e delle lotte anti-coloniali. Gli anni in cui le culture altre uscivano dal novero delle curiosità esotiche e traboccando oltre la cerchia della coscienza antropologica più avanzata, si facevano problema politico visibile agli occhi di una nuova diffusa sensibilità. Forse quelle culture lontane e diverse potevano offrire qualcosa di diverso e di migliore dei miti, dei riti e delle merci della società opulenta.
Il patrimonio di culture diverse diventava uno degli strumenti necessari a scardinare le abitudini e le regole borghesi dell’occidente sviluppato. Rivolto, dapprima, contro l’eurocentrismo conservatore, poi anche contro il progressismo e le mitologie dello sviluppo, lungo un filone che ancora oggi non si è esaurito. 
Ci fu nell’internazionalismo del 1968, questa forte componente di “pluralismo antropologico” e di relativismo culturale che lo rese, soprattutto nella sua psicologia profonda diverso dal vecchio “internazionalismo proletario” del movimento comunista, per quanto da esso derivasse, e sempre più col passare del tempo, forme, parole d’ordine, e schemi insieme all’idea che tutte queste forze diverse dovessero concorrere alla trasformazione radicale del mondo capitalistico.
Così il Vietnam, non appassionava solo la difesa senza compromessi del principio dell’autodeterminazione e la propensione per il socialismo, ma anche quel talento artigianale e contadino della guerra, quelle trappole di liane e di aculei, quella vita nei cunicoli sotto le bombe, quegli antichi saperi e quel fitto, solidissimo, tessuto di rapporti e di solidarietà comunitarie che circondavano da ogni parte ed insidiavano non solo gli uomini ma la cultura stessa dell’occupazione.
La resistenza di questo altro, culturale e geografico, offriva un presente principio di legittimazione e una speranza di successo per la resistenza di ogni altro perseguitato nelle cittadelle del mondo sviluppato.
I “due, tre, cento Vietnam”, auspicati da Guevara e gridati nelle piazze di tutto il mondo assumevano così un senso ben più esteso e pervasivo di qualsiasi possibile effetto “domino” sullo scacchiere geopolitico.
Tanto era denso e carico di significati l’esempio vietnamita, tanto pesanti i valori che gli si chiedeva di portare sulle sue spalle, che il mondo, ammirato, non si sforzò eccessivamente di indagare e capire le asprezze di quella concreta realtà. E del resto, questo sforzo non l’avrebbe fatto neanche il “revisionismo” dei vinti, interamente dedicato a fabbricare un mito negativo che potesse sostituirsi a quello positivo, della fine degli anni ’60 con lo scopo dichiarato di cancellare quanto l’esperienza vietnamita aveva sedimentato in Europa e negli Stati Uniti. Che si trattasse di imbecillità o di perversione, si lasciava intendere, chi aveva tappato la bocca ai cannoni del “mondo libero” aveva consentito un’insostenibile barbarie. Morale: mai tappare la bocca a quei cannoni.
I vietnamiti, contrariamente al Leonida e ai Cincinnati, non si erano estinti da un paio di millenni quando furono chiamati a rappresentare la virtù della rivoluzione.    

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