incisività e un maggior impatto propagandistico» («Freedom», 10 dicembre 1960). E rincalzavo la dose scrivendo che «se mai ci fossimo proposti di effettuare la transizione da setta a forza sociale», avremmo avuto bisogno di rivitalizzare «Freedom», e questo «perché non eravamo riusciti a formulare alternative anarchiche nei più importanti campi della vita. Ed era proprio questa la ragione per cui la maggior parte di quanti avrebbero potuto portare nuova vita alle nostre attività non ci potevano prendere sul serio» («Freedom», 3 dicembre 1960).
I miei colleghi del gruppo editoriale Freedom Press risposero con una apertura mentale estrema e in effetti dissero: lasciamo che coloro che vogliono produrre un settimanale lo facciano, e che coloro che vogliono produrre un mensile facciano altrettanto. Fu allora deciso che nella prima settimana di ogni mese sarebbe apparsa la rivista mensile invece del settimanale e che avrebbe dovuto avere non il formato in-quarto che mi ero immaginato per un «Freedom» mensile, ma una pagina in-ottavo (l’attuale A5). Mi misi a pensare ad un nome per la nuova testata e selezionai «Autonomy», completato dal sottotitolo giornale di idee anarchiche. Era questo il titolo di uno dei primi giornali anarchici pubblicati in Gran Bretagna. Tuttavia ebbi molte pressioni per modificare il titolo in «Anarchy», il che rese il sottotitolo piuttosto superfluo sebbene sia stato mantenuto sino al ventisettesimo numero; dopodiché scomparì, ma non per decisione mia bensì dell’eccellente disegnatore che si occupava delle copertine: Rufus Segar.
Mi ero immaginato un «Freedom» mensile e invece mi ritrovai a produrre un giornale completamente diverso del quale io ero l’unico redattore. E una volta che l’impostazione di base era stata definita, mi fu data un’autonomia totale: nessuno discuteva quello che veniva pubblicato su
abbonamenti cumulativi che noi tutti speravamo i nuovi lettori avrebbero scelto - così come tutta la massa di lavoro necessaria per evadere gli ordini e occuparsi della spedizione. Menziono tutti questi particolari della produzione perché penso che anche in altri Paesi i piccoli gruppi di persone interessate al giornalismo anarchico abbiano affrontato problemi simili.
Nel 1970 comunicai ai miei colleghi, con sei mesi di preavviso, la mia intenzione di smetterla di fare il redattore.
Era mia opinione che dieci anni di lavoro redazionale fossero troppi per chiunque, anche per il più formidabile dei redattori: routine e formule automatiche cominciano a imporsi. E sebbene la gente spesso mi dica ancor’oggi che «Anarchy» negli anni Sessanta affrontava argomenti che sono stati poi percepiti come importanti solo negli anni Settanta e Ottanta, ci stavamo comunque muovendo verso un decennio differente. Sono diventato uno scrittore di libri, soprattutto sull’abitare, l’educazione e sugli usi popolari o non ufficiali dell’ambiente, rimanendo in parte anche un giornalista semplicemente perché i venticinque libri che ho scritto o curato nei successivi venticinque anni mi hanno fatto guadagnare molto poco. Tutti quanti, però, hanno proposto un approccio anarchico ad un pubblico di lettori che non avrei raggiunto altrimenti.
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