L’anarchismo è il risultato del plurimo incrocio tra l’onda lunga della secolarizzazione illuministica, con il suo inesorabile e progressivo «disincanto del mondo», e i due effetti storici che ne hanno avallato e scandito la progressione: la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese. Culmine culturale ineludibile di questo formidabile intreccio, tutto segnato da una dimensione continuativamente rivoluzionaria, nel significato più esteso del termine, l’anarchismo è dunque – e non potrebbe essere diversamente – l’estremo punto di tale processo. La negazione trasversale di ogni autorità divina e umana, la critica del principio di autorità a ogni livello delle sue determinazioni storiche date e a ogni livello delle sue determinazioni storiche possibili, la critica cioè dell’esistente e di ogni futuro informato dagli stessi principi, pongono l’anarchismo sulla labile frontiera che divide i lembi estremi dell’esercizio rivoluzionario della critica in tutte le sue forme dalla più problematica e ineffabile terra di nessuno del nichilismo.
L’anarchismo è invece la soluzione diversa dalla democrazia perché va molto più in là del socialismo, in quanto ritiene che la rivoluzione non sia tanto nelle cose (e se lo è, questo è un aspetto secondario) quanto nell’ordine della libertà come inizio di una nuova storia, come fondazione irreversibile del farsi della libertà come libertà assoluta. La rivoluzione è l’estrinsecazione di questo futuro e di questa nuova storia, la manifestazione visibile e reale della capacità umana di far coincidere, in un medesimo incrocio spazio-temporale, il senso e la potenzialità dell’azione emancipativa dell’uomo. La rivoluzione anarchica non conosce la distinzione tra tempo storico e tempo rivoluzionario: essa intende inverare il primo nel secondo, interrompendo chiliasticamente la logica del potere con l’eliminazione immediata e totale di ogni possibilità riproduttiva dell’autorità sotto qualsiasi forma.
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