Gli hipster erano identificabili solo da qualche caratteristica. Erano interrazziali, cosa rara nell'America degli anni Cinquanta, bohémien neri e bianchi che vivevano ai margini dell'economia e passavano il loro tempo insieme, soprattutto nei jazz club. Erano un po' trasandati. Potevano essere, citando la Bird, "un delinquente da strada, un vagabondo, uno scaricatore di luna park o un uomo dei traslochi che lavora in proprio nel Greenwich Village". E disponevano del loro linguaggio, espresso al meglio nelle giocose, divertenti, fluide canzoni `rap" di Lord Buckley, figura eternamente all'avanguardia. Nel privato, agli hipster piaceva la marijuana e, in alcuni casi, l'eroina, strumenti per rilassare la mente razionale e abbandonarsi al bebop.
L’hipsterismo traeva linfa vitale proprio da quelle ansie nucleari che i benpensanti cercavano di dimenticare. La possibilità di un'immediata apocalisse costituiva una scusa perfetta per declinare responsabilità ed evitare le ricompense a lungo termine della normale vita adulta. Perché costruirsi prudentemente una carriera, una famiglia e una reputazione se non c'era futuro? L’hipster era libero di vivere alla giornata. Nel suo famoso peana dedicato a questa sottocultura, Il negro bianco, Norman Mailer scrisse che gli hipster si dedicavano semplicemente alla “ricerca di un orgasmo più apocalittico di quello che lo aveva preceduto”, un'affermazione intesa sia letteralmente che come metafora per ogni tipo di esperienza intensa ed estatica dell'essere nel momento.
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