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giovedì 18 giugno 2020

Abel Paz il primo giorno della rivoluzione

Quando nella notte tra il 19 e il 20 di luglio del 1936, arrivai all’Ateneo Eclectico del quartiere del Clot, era già passata la mezzanotte, ma dall’attività febbrile che vi regnava non sembrava di essere già alle prime luci del nuovo giorno, il 20. Era un continuo andirivieni di gente che si muoveva in fretta per far fronte alle necessità dei posti di guardia sulle barricate, che durante il giorno erano state alzate vicino all’Ateneo, nella calle Industria e nella calle Padre Claret, allo sbocco della rambla Guinardó, accanto al distributore di benzina e di fronte alla clinica Victoria. Mi mossi tra i capannelli che commentavano i fatti del giorno e la rapidità della vittoria sui militari golpisti. Una vittoria che era stata ottenuta nelle strade in meno di dodici ore di scontri con la truppa. Per uno dei presenti il ballo era cominciato mentre si trovava nel Paralelo, di fronte al Molino, all’uscita del Sindacato del Legno nella calle Rosai.
Raccontava come in un batter d’occhio la strada era stata disselciata e si era alzata una barricata enorme; dietro quel riparo avevano aspettato a pie’ fermo la truppa che scendeva da plaza de España con l’obiettivo di occupare il porto. Avevano fatto fronte con armi di fortuna e con bombe a mano fatte in casa. La truppa aveva preso posizione agli ordini di un tenente, ma questi doveva aver perso la testa e aveva ordinato ai suoi di attaccare allo scoperto la barricata; i difensori avevano vissuto momenti di angoscia nel vedere la rapidità con cui sparivano le loro munizioni. Ma nel momento in cui il tenente, sempre più esaltato, gridava: “All’attacco!”,
un caporale aveva rivolto la sua arma verso l’ufficiale e con un colpo l’aveva steso. “Tutti potemmo vedere la scena”, continuò il compagno, e aggiunse: “Da quel momento i soldati smisero di sparare e cominciarono a venire verso di noi gridando entusiasti: Viva la Repubblica!”. Tutti fraternizzammo, i soldati cominciarono a liberarsi delle divise e ciascuno per conto proprio si mise a raccontarci come erano stati ingannati dai loro comandanti. Questi avevano detto loro che andavano a difendere la Repubblica minacciata da elementi che le si erano sollevati contro...”.
Il testimone continuò a raccontare quello che era successo dopo, ma io mi allontanai dal gruppo con l’intenzione di riposare almeno un po’, perché sentivo che il giorno che stava nascendo sarebbe stato duro. Finii per buttarmi su una coperta e lì mi sistemai per dormire. Impossibile. Ero sfinito, ma con i nervi a fior di pelle. Ero sovraeccitato. Chiudevo gli occhi e invece del sonno sopraggiungevano e si accavallavano le scene che avevo vissuto in quel giorno. Per me tutto era cominciato verso le nove della mattina del 19 luglio, molto vicino alla casa dove vivevo, nel quartiere del Clot. Qualcuno, appostato sul campanile della chiesa che avevo di fronte a casa, sparò sulla gente che si stava radunando nell’avenida Meridiana. Tra quelli che erano accorsi c’era un vecchio militante del sindacato Manifatturiero e Tessile, armato di un fucile da caccia. Imbracciò l’arma e sparò più volte contro il campanile, dopodiché non ci fu alcuna risposta. Chi aveva sparato? Rimase un mistero, perché malgrado in molti si facesse irruzione nella chiesa e si cercasse dovunque, non fu possibile trovare l’aggressore. Qualcuno disse che le chiese comunicavano l’un l’altra attraverso dei sotterranei, e che sicuramente il prete era sparito per quella via ma, per quanto si cercasse a lungo, non ci fu verso di scoprire il sotterraneo. La cosa più probabile è che il prete avesse indossato degli abiti civili e si fosse mescolato agli attaccanti per dileguarsi protetto dal travestimento.
(Da Abel Paz, “Spagna 1936. Un anarchico nella rivoluzione”.)

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