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giovedì 22 luglio 2021

PROUDHON autodidatta

Autodidatta spinto da una pungente curiosità scientifica e svagato costantemente da un carattere fra bizzarro e superficiale, Proudhon si rivela assai più tagliato per la memorialistica e per la polemica pubblicistica che non per la ricerca scientifica sistematica. Lo confessa egli stesso, d'altronde: «La scienza pura è troppo arida - scrive ad Ackermann, il 6  maggio 1841 -; i giornali  troppo frammentari; i lunghi trattati troppo pedanti: i miei maestri sono Beaumarchais e Pascal». Da questo punto di vista Proudhon - contrariamente all'opinione riferita da Mehring - è tutt'altro che «una testa tedesca»; è invece calato interamente nella tradizione della cultura politica francese, nella scia dei philosophes e dei pamphle-taires, imbevuto di quella pozione filosofico-letteraria che aveva le sue sorgenti profonde nell'esprit politique nato nella ricca atmosfera del Settecento francese, confinante a un lato col moralismo filosofico e  all'altro con la retorica umanitaria. E moralista infatti lo hanno giudicato i suoi ammiratori e i suoi discepoli, mentre un caustico genio come Marx, che non dimenticava certo la ruggine che c'era stata con  Proudhon, lo giudicava, molti anni dopo, puramente e semplicemente un retore. Persino Sorel, così devoto a Proudhon, riconosce che «tutta la dottrina di Proudhon era subordinata all'entusiasmo rivoluzionario». Tre anni prima della morte, d'altronde, e  prima del duro giudizio di  Marx, Proudhon così si confessava a  Bergmann in una lettera dei 14 maggio 1862: «Ho lavorato molto, ho commesso molte sciocchezze, molti errori; ho imparato qualcosa e ho ignorato moltissime cose; credo d'avere un qualche talento, ma un talento incompleto, sconnesso, ineguale, pieno di soluzioni di continuità, di negligenze, di intemperanze... Sarei riuscito meglio, credo, se avessi avuto meno da fare in ordine alla mia educazione mentale; se avessi trovato le mie idee bell'e fatte, i problemi risolti; se non avessi dovuto fare altro che il tribuno e il volgarizzatore... Ma sono stato, credo, un uomo onesto; da questo punto di vista mi pongo senz'altro al livello di tutti i maestri». Ma poiché è noto che non basta essere un uomo onesto per passare alla storia bisogna pur riconoscere che Proudhon, oltre al  temperamento farouche che egli stesso si riconobbe, oltre allo «stile assai muscoloso» che gli riconobbe anche  Marx, ebbe i suoi specifici meriti: dette voce al dissesto della Francia, alla irrequietudine sociale del suo tempo di fronte alla prima crescita del nuovo mondo borghese formulando, con teorie  spesso più brillanti che profonde, rivendicazioni pratiche e prospettive  avveniristiche che  suscitarono e alimentarono la critica e la rivolta. Questo «homme compliqué», questo «blousier pamphletaire», come l'ha  chiamato Leroy, fu a lungo lo scandalo di Parigi e della Francia, fu - come volle definirsi egli stesso - «l'excommunié de l'époque», ma concorse non poco, di fatto, a scomunicare a nome delle plebi e  del proletariato  le verità ufficiali. O sarà proprio un caso che non  pochi comunardi del 1871 si richiameranno a lui? Egli incarnò l'inquietudine e le indecisioni di un'epoca, se non riuscì a superarle e quietarle  teoricamente: ma anche così - bisogna convenire con Lucien Febvre - Proudhon «ha contribuito, e per una larga parte, al nutrimento intellettuale e morale degli  uomini, dei militanti che hanno lottato.., per mettere in piedi i sindacati, le camere del lavoro, le  loro unioni e le loro confederazioni», le strutture generali del movimento operaio.


SEVERANCE – Dead Can Dance

Separazione, 

gli uccelli migratori ci chiamano

eppure stiamo qui

bloccati dalla paura di volare.


Via terra,

i venti del cambiamento consumano questa terra, 

mentre noi restiamo

nell'ombra delle estati ormai passate.


Quando tutte le foglie

saranno cadute e trasformate in polvere,

rimarremo

inchiodati al nostro modo di essere?


Indifferenza,

la piaga che si diffonde in questa terra

La profezia si rivela

nelle forme delle cose che verranno.




La natura come comunità universale

La natura è l'insieme dell'evoluzione nella sua totalità. Proprio come l'individuo è la sua intera biografia, non una semplice somma di dati numerici che misurano il suo peso, la sua altezza e magari anche la sua "intelligenza". Quello che fa veramente unici e singolari gli esseri umani  nello schema ecologico delle cose è che essi possono intervenire in natura con un grado di auto coscienza e di flessibilità sconosciuto a tutte le altre specie. Un umanità "illuminata" consapevole finalmente delle sue potenzialità in una società ecologicamente armoniosa è solo una speranza, non certo una realtà esistente. Non riuscire a vedere  che il problema di attingere la nostra piena umanità è un problema sociale che dipende da fondamentali mutamenti istituzionali e culturali significa ridurre l'ecologia radicale a zoologia e rendere chimerico qualsiasi tentativo di realizzare una società ecologica. Non crediamo che si possano conseguire grandi trasformazioni  sociali tramite l'apparato statale, vale dire in un sistema parlamentare, magari sostituendo un partito ad un altro, per quanto questo possa apparire particolarmente illuminato. Il parlamentarismo invariabilmente mina la partecipazione popolare alla politica. Una nuova politica dovrebbe implicare la creazione di una sfera pubblica di base assolutamente partecipativa, a livello di città, di paese, di villaggio, di quartiere. Il capitalismo ha certamente prodotto una distruzione dei legami comunitari  così come ha prodotto la devastazione del mondo naturale, ci troviamo di fronte alla semplificazione delle relazioni umane e non umane, alla loro riduzione alle più elementari forme interattive. Ma laddove esistono ancora legami comunitari, e laddove, anche nelle più grandi città, possono nascere interessi comuni, questi devono essere coltivati e sviluppati. L'ecologia non è nulla se non si occupa del modo in cui le forme di vita interagiscono tra loro per costruire comunità e per evolversi come comunità.


giovedì 15 luglio 2021

Idea generale della rivoluzione – Proudhon

Alla vostra teoria accentratrice di governo, che non ha altra causa che la vostra ignoranza, per principio solo un sofisma, per mezzo solo la  forza, per risultato solo lo sfruttamento dell'umanità, il progresso del lavoro, e delle idee, io vi contrappongo, da parte mia, questa teoria liberale: trovare una forma di compromesso che, conducendo all'unità la divergenza degli interessi, identificando il bene particolare col bene comune, cancellando la discriminazione di natura con quella dell'educazione, risolve tutte le contraddizioni politiche ed economiche; dove ciascun individuo sia ugualmente e nella stessa misura produttore e consumatore, cittadino e principe, amministratore e amministrato, dove la sua libertà aumenti sempre senza ch'egli abbia bisogno di privarsene mai; dove il suo benessere s'accresca indefinitamente, senza ch'egli possa subire, di fatto, dalla società o dai suoi concittadini, alcun danno né nella sua proprietà, né nel suo lavoro, né nel suo guadagno, né nei suoi rapporti d'interesse, d'opinione o d'affetto con i suoi simili. Che cosa! queste condizioni  vi sembrano impossibili da realizzarsi? Il contratto sociale, quando voi considerate la spaventosa quantità dei rapporti ch'esso deve regolare, vi sembra ciò che si può immaginare di più inestricabile, qualche cosa come la quadratura del cerchio e il moto perpetuo. È per questo motivo che, stanchi di guerra, voi vi buttate di nuovo nell'assolutismo, nella forza. Considerate tuttavia che se il contratto sociale può essere stipulato fra due produttori e - chi dubita che, ridotto a questi semplici termini, esso non possa avere una soluzione? - Esso può essere stipulato ugualmente fra milioni di produttori, poiché si tratta sempre dello stesso impegno e che rendendolo il numero delle firme sempre più efficace, non vi aggiunge nemmeno un articolo. La vostra motivazione d'impossibilità d'agire non sussiste dunque: essa è ridicola e vi rende inscusabili. In ogni caso, uomini del potere, ecco quello che vi dice il produttore, il proletario, lo schiavo, colui che voi aspirate a far lavorare per voi: io non chiedo né i beni, né le braccia di nessuno e non sono disposto a sopportare che il frutto della mia fatica divenga bottino di un altro. Io voglio anche l'ordine, altrettanto e maggiormente di coloro che lo sconvolgono grazie al loro preteso governo; ma io lo voglio come un effetto della mia volontà, una condizione del mio lavoro e una convinzione della mia ragione. Io non lo sopporterò mai proveniente da una volontà estranea e che mi impone come condizioni preliminari la servitù e il sacrificio.


PALCOSCENICO MONDIALE - Kurt Tucholsky

   


          "Qualcosa   bussa e ribussa, impazientemente, alla nostra porta. 

               Bisognerà pur aprire un giorno o l'altro... Molti si rintanano. 

          Non solo i vigliacchi — no, anche La gente troppo calma o troppo fine. 

 Costoro  non vogliono immischiarsene. Ma li si immischia; sono trascinati di 

   continuo dalla corrente; i paraocchi non servono a niente. Persino la lingua 

   fallisce pietosamente, questa lingua ereditata dal vecchio mondo, con i suoi 

      vecchi fioretti, le sue immagini balorde, i suoi ornamenti di un'altra èra. 

      Nulla corrisponde più, le antiche parole cadono su se stesse perché non si 

 aggrappano più  a niente di ciò che è nuovo. Sono altezze che nessuno scherzo, 

       nessun motto di spirito, nessun precetto di saggezza riesce a raggiungere. 

                          L'età borghese se ne va. Ciò che viene, nessuno lo sa. 

        Molti ne  hanno l'oscuro presentimento, e vengono scherniti per questo. 

Le masse oscuramente lo avvertono, incapaci di esprimersi e (ancora) soffocate. 

         Ciò che si vede scontrarsi mollemente, mostrare i denti da una parte e 

  dall'altra, poi  gettarsi ciecamente sull'avversario — infondo infondo, sono 

 l'Antico e il Nuovo, è l'irreconciliabile opposizione tra ciò che è e ciò che sarà. 

                                          Un maremoto  s'infrange sulla terra. 

                                     Non è unicamente di  natura economica, 

          non si tratta soltanto di mangiare, di bere e di guadagnare dei soldi. 

                   Non si tratta solamente di sapere come verranno distribuiti 

            i beni economici della terra, chi deve lavorare e chi deve sfruttare. 

                                         No, ciò che è in gioco è altro: tutto." 

(Kurt Tucholsky (1890-1935) – pubblicista e romanziere notissimo in ambito tedesco, poeta e cabarettista raffinato, nonché pacifista militante – rappresenta il simbolo di quell’“altra Germania”, che già negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale ha denunciato i segni premonitori della deriva autoritaria e militarista della società tedesca. Le contraddizioni allora da lui rilevate costituiscono ancora per noi “futuri lettori” un fertile e attualissimo banco di prova.)


PRIVILEGIO

Quindi, come possiamo veramente cambiare le cose in modo che il privilegio sparisca e che le persone siano tanto libere quanto vogliono essere? Per cominciare dobbiamo uscire dalle nostre zone di sicurezza e  ascoltare quello che i meno privilegiati di noi hanno da dire su come il nostro privilegio li tocca. Se non attiriamo alcuni tipi di persone nei nostri gruppi e comunità dobbiamo scoprire perché e fare qualcosa al riguardo. A volte la soluzione è semplicemente ascoltare quello che i membri di un gruppo escluso stanno dicendo sulla tua comunità, anziché presupporre di sapere di cosa si tratta. Questo non significa riempirsi di un senso di colpa paralizzante; significa identificare quali sono i problemi e fare qualcosa per risolverli. Dobbiamo essere aperti sulle nostre idee e sul perché ci opponiamo ai sistemi gerarchici che favoriscono alcune persone e alcune  culture sulle altre, e sul perché devono essere cambiati. Anziché allontanare le persone dal coinvolgersi dicendo loro quanto sono cattive per il fatto di essere privilegiate, abbiamo bisogno  di coinvolgerle di più nel movimento contro il privilegio. Il senso di colpa non cambia le persone — le scagiona. La colpa fornisce ai privilegiati una piccola punizione attraverso la quale si sentono assolti per avere uno status privilegiato. Se vogliamo cambiare il mondo per il meglio abbiamo bisogno di sentirci bene su quello che stiamo facendo, senza dover affermare una  posizione speciale sugli altri o crogiolarci inutilmente nell'angoscia. E' il privilegio che deve essere attaccato, non la persona.


giovedì 8 luglio 2021

Proudhon e Marx

 

L’incontro fra Marx e Proudhon riveste un’importanza storica, in quanto si manifestarono in esso i primi segni di quel conflitto inconciliabile fra socialismo autoritario e anarchia che avrebbe toccato il suo punto di massima violenza venticinque anni dopo, in seno alla I Internazionale”. Questo rapporto, però, era iniziato nel migliore dei modi subito dopo la pubblicazione di “Che cos’è la proprietà?”, che colpì molto positivamente Marx, dandogli anche molti spunti di riflessione. È, infatti, molto probabilmente sotto l’influsso dell’opera proudhoniana che il futuro autore de “Il Capitale”, in un articolo pubblicato sulla “Gazzetta Renana” nel 1842, scrisse: “Se qualunque offesa alla proprietà, senza distinzione, senza specificazioni, è furto, non sarebbe da dirsi furto ogni proprietà privata? Colla mia privata proprietà non escludo io tutti gli altri da questa proprietà? non ledo in tal modo il loro diritto di proprietà?”. Secondo Gurvitch e Bancal, inoltre, è dal seguente passo di “Che cos’è la proprietà” che Marx avrebbe tratto spunto per la sua teoria del plus-valore o plus-lavoro. Nonostante alcune critiche, Marx cercava di instaurare uno stretto rapporto con Proudhon, pensando di poterlo “convertire” alla sua nascente dottrina comunista: la rottura tra i due, però, si consumò già nella seconda metà degli anni ‘40 del XIX secolo. Una rottura che verteva essenzialmente su due grossi punti: il rifiuto, da parte di Proudhon, del comunismo e del dogmatismo marxiano, e un’opposta concezione del metodo con cui attuare il cambiamento della società. Due punti messi perfettamente in luce da Proudhon nel replicare ad una lettera in cui Marx, nel ’46, gli proponeva di istituire una costante cooperazione, utile ai fini della discussione e dell’azione. Il pensatore francese rispose così: “Faccio professione in pubblico di un quasi assoluto antidogmatismo economico. Non facciamo di noi stessi, perché siamo alla testa di un movimento, i campioni di una nuova intolleranza, non posiamo ad apostoli di una nuova religione, sia pure la religione della logica e della ragione. Raccogliamo e incoraggiamo tutte le proteste, rifiutiamo ogni esclusivismo, ogni misticismo; non consideriamo mai esaurita nessuna questione. A questi patti aderirò volentieri alla vostra associazione; altrimenti, no! Risulta quindi evidente, innanzitutto, come Proudhon rifiuti qualsiasi pretesa di venire a capo di verità assolute, e ritenga invece fondamentali i principi della tolleranza e della libera e costante critica di ogni teoria. L’antidogmatismo, del resto, è una caratteristica che sarà tipica di tutto il movimento anarchico successivo: se, infatti, si pone la libertà come valore fondamentale, non c’è spazio per verità assolute ed intoccabili. “L’idea stessa di utopia riesce inaccettabile alla maggior parte degli anarchici, in quanto si tratta di una rigida costruzione intellettuale che, imposta con successo, sarebbe tanto micidiale al libero sviluppo dell’individuo quanto qualsiasi stato esistente. Inoltre, ogni società utopistica è concepita come perfetta, e tutto ciò che è perfetto cessa automaticamente di evolversi”. Niente di più lontano, quindi, dall’arroganza e dalle presunzioni marxiste. È d’obbligo, inoltre, aggiungere che Proudhon, proprio perché anarchico e quindi fautore di una società senza stato né gerarchie di alcun tipo, rigetta il socialismo/comunismo di stampo marxista in quanto autoritario: egli aveva quindi già individuato, con largo anticipo rispetto alla maggior parte degli uomini di sinistra, la vena dittatoriale presente nelle teorie dell’autore del Capitale. 


ANDREJ RUBLJOV – Andrej Tarkovskij

 Nel film s'immagina che  all'indomani d'uno scontro cruento all'interno della chiesa che stava affrescando, bruciato dal  rimorso, convinto di non aver più nulla da dire con la pittura e persuaso da Teofane il Greco della miseria degli uomini, Rubljov abbia smesso  di dipingere e si sia chiuso nel silenzio del convento di Andronikov. Ma quindici anni dopo qualcosa lo riportò nel mondo. Fu quando assistette alla fusione d'una grande campana, realizzata insieme al popolo da un giovane cui nessuno aveva insegnato quell'arte con gli stessi strumenti, l'argilla e l'argento, in cui vide simbolicamente condensato il destino dell'uomo. Questo, pensano Rubljov e Tarkovski, è il debito dell'artista verso la storia: offrire, con la bellezza dell'invenzione, un rifugio alla speranza. È questo il traguardo: un abbraccio soave fra natura e poesia che superi il dolore del tempo. Perciò il film, apertosi esaltando l'utopia racchiusa nel volo impossibile di un pallone, si chiude sulle immagini della bellissima Trinità di Rubljov e di alcuni cavalli  lungo il  fiume. Arte  e verità si fondono, e la realtà assume i colori sereni della vita.

I film che è obbligatorio vedere non sono poi molti. Questo lo è. Dura oltre tre ore, non vi è nessun attore di grande fama, è in bianco e nero, ma  è, semplicemente, uno dei capolavori del cinema degli anni Sessanta, e una delle più alte esperienze emotive offerte da un regista che insieme a pochi altri merita il titolo di maestro. E anche, se lo scandalo politico vi pungola, un film «maledetto», che  in patria è stato a lungo osteggiato, al punto che, finito nel '67 dopo una lunga incubazione, e tagliuzzato qua e  là dall'autore dopo una testarda resistenza, soltanto nel '69 fu presentato molto di malavoglia al Festival di Cannes, e poi ebbe anche all'estero vita così difficile (pochi in Urss l'hanno visto) da impiegare otto anni prima di giungere sui nostri schermi.

Errore fondamentale di gran parte dei cosiddetti intellettuali sovietici del «dissenso» è quello di identificare lo stalinismo con il marxismo, e di rifiutare col primo anche il secondo; cancellando (cercando di cancellare) la Rivoluzione dalla storia e dalla cultura, essi traggono dalla Rus' presovietica un retaggio culturale che oggi potrebbe essere utile e progressista soltanto se fosse assunto criticamente. Tarkovskij  è uno di questi «nostalgici»: basti notare come i concetti  di popolo, storia, natura che troviamo nel  Rubljov somiglino a quelli del primo Tolstoj. Il «popolo» non si presenta nel film con i connotati di una classe sociale definita storicamente, si  identifica invece con un'umanità  contadina che è «padrona del segreto della natura». Il monaco-pittore Andrej Rubljov non è protagonista di un dramma, esiste in quanto è una presenza nella realtà della sua terra. Egli rifiuta la religione utilizzata dai principi come strumento di dominio, cosi come rifiuta la pittura di Teofano; trova nella subcultura della Rus' contadina una valida  alternativa alla cultura dominante. Durante la festa pagana, Andrej viene a contatto con tale religiosità popolare, e capisce che è veramente vicino a Dio chi «e» natura, non chi vuole imporre forzatamente una fede astratta. Sconvolto da questa rivelazione, non sa agire; rimane immobile di fronte al muro che deve affrescare perché si accorge dell'inadeguatezza di una cultura religiosa che svilisce il corpo umano e rende la donna subalterna. I rintocchi della campana costruita grazie al lavoro del popolo e all'ispirazione di Boriska risvegliano Andrej dal silenzio e dall'inattività: egli capisce che la grande opera frutto della forza popolare «originaria». Con i limiti ideologici, il Rubljov evidenzia un'indubbia contestazione alla situazione sovietica attuale. I «principi» costituiscono una forza reazionaria chiusa in vecchi pregiudizi:  non è difficile identificarli con gli odierni burocrati del Cremlino; la religione istituzionalizzata che sostiene il potere dei primi equivale al revisionismo stalinista di questi ultimi, il Cristo terribile dipinto da Teofano è Stalin, l'arte con cui si opprime il popolo è lo zdanovismo.



Autodifesa, parte dell’istinto umano

La maggior parte della popolazione mondiale vive in condizioni deplorevoli, non perché non è diventata civilizzata o modernizzata, ma perché è obbligata ad essere la manodopera del cosiddetto potere del primo mondo. Alcuni di noi vivono nel primo mondo soffrendone, con estrema alienazione, deterioramento fisico, distorsione psicologica, e vuoto spirituale, non ci sono dubbi che siamo tutti diretti in un percorso unidirezionale verso la sorte avversa. Quindi nell'essere anarchici si è automaticamente rivoluzionari, o comunque atti a promuovere l'insurrezione a scopo di liberazione. Questo può avvenire in diverse forme, ma la riforma dei sistemi di dominazione non sono punti di vista anarchici. Mentre molte azioni anarchiche possono essere considerate non violente, non esiste limite da porre alla nostra resistenza. Come anarchisti, dobbiamo rifiutare i limiti ideologici e filosofici mentre scegliamo come resistere. L'interazione fisica con l’autorità necessita di andare oltre la passività e i simboli. Infatti, molti anarchici adottano la violenza rivoluzionaria come reazione naturale e necessaria all'oppressione. Se noi guardiamo ovunque nel mondo naturale, osserviamo che l'auto-difesa fa parte dell’istinto umano. È importante mettere in discussione le limitazioni ideologiche che provengono da luoghi di estremo privilegio. Molte persone della Terra non hanno la possibilità di decidere quale sia la risposta più giusta alla dominazione, e spesso devono scegliere fra la vita e la morte. Non è questione di riflessione personale o di perfezionismo ideologico; è agire o morire. Questo non significa che tutto deve essere collegato alla resistenza violenta, ma piuttosto, sapendo che esiste, ammettere che è giustificata (in molte situazioni), e che non deve essere condannata. La violenza rivoluzionaria, nelle sue varie forme, è una risposta necessaria alla violenza istituzionale del sistema, ed è necessaria per la continuazione di tutte le forme di vita.


giovedì 1 luglio 2021

Proudhon e Bakunin

Proudhon è stato, in “Che cos’è la proprietà?”, il primo a definirsi esplicitamente come un anarchico, ed il primo a conferire al concetto di “anarchia” una connotazione positiva. Precedentemente, infatti, anarchico ed anarchia erano termini utilizzati esclusivamente in accezione negativa, identificando l’assenza di un principio di governo e di gerarchia (dal greco “anarchos”) con il caos: Proudhon, invece, come abbiamo visto nelle scorse pagine, cerca di dimostrare che la libertà può essere “madre dell’ordine”. Prima di lui c’erano già stati altri pensatori che avevano esposto idee e valori che oggi inquadriamo all’interno dell’anarchismo, in primis Godwin e Stirner: questi, però, non avevano mai definito se stessi come anarchici. E’ stato Proudhon, quindi, colui che ha dato inizio all’anarchismo consapevole di se stesso, gettando, con le sue teorie riguardanti l’autogestione ed il rifiuto dello stato, le basi della filosofia e del movimento libertario. Questo ruolo di pioniere gli è stato pienamente riconosciuto da due dei personaggi di maggior spicco della storia dell’anarchia: Bakunin e Kropotkin. Il primo ha infatti affermato che “Proudhon è il maestro di tutti noi”.Sia Bakunin che Kropotkin, quindi, sono stati profondamente influenzati dalle teorie del pensatore francese, ma entrambi se ne discostano per alcuni, significativi, aspetti. Sono due, i principali punti su cui le idee bakuniane divergono da quelle proudhoniane: il modo in cui attuare il cambiamento, ed il tipo di organizzazione economica da dare alla futura società anarchica. Per quanto riguarda il primo punto, Bakunin si trova perfettamente d’accordo con Proudhon quando afferma che “la rivoluzione deve necessariamente precedere la rivoluzione esterna, anche perché questo mutamento radicale dell’uomo è il necessario presupposto del successo di quella”: questa idea, ponendo come fondamentale il mutamento interno ad ogni singolo individuo, contrasta fortemente con la teoria marxista di una rivoluzione realizzata da una ristretta avanguardia a capo di una massa proletaria informe, ed abbraccia quindi perfettamente quella concezione individualistica del mondo già espressa da Proudhon. Bakunin, tuttavia, rifiuta, considerandola sostanzialmente utopica, la teoria di Proudhon secondo la quale il passaggio dal capitalismo all’anarchia debba avvenire in modo graduale e pacifico. Pur rendendosi perfettamente conto dei mali connessi ad una rivoluzione violenta, giudica quest’ultima come l’unico mezzo possibile per l’abbattimento dello stato: quest’ultimo, infatti, non farà mai harakiri spontaneamente. “La distruzione è un passo necessario per ottenere quell’effetto rigenerativo della società e dei singoli che la compongono che solo la rivoluzione può produrre”. Il secondo punto di rottura, riguarda l’organizzazione da instaurare con l’anarchia. Bakunin, pur conservando alcuni aspetti del mutualismo proudhoniano, teorizza il collettivismo. “Bakunin e i collettivisti della fine del decennio 1860-70, cercando di adattare le dottrine anarchiche a una società sempre più industrializzata, sostituirono all’idea proudhoniana del possesso individuale l’idea del possesso da parte di istituzioni volontarie, pur tenendo fermo il diritto del singolo lavoratore di godere il frutto delle sue fatiche o l’equivalente di esso”. Con Bakunin, il gruppo di lavoratori, la collettività, prende il posto del lavoratore singolo come unità di base dell’organizzazione sociale: questa soluzione era ritenuta necessaria se, dall’economia prevalentemente agricola ed artigiana che caratterizza il pensiero di Proudhon, si passano ad affrontare i problemi di una società industriale. Bakunin, tuttavia, resta vicino alle idee proudhoniane quando si oppone alla formula anarco-comunista “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, affermando che si deve invece organizzare la produzione secondo quest’altro principio: “da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo quanto ha fatto”. Solo in questo modo, infatti, secondo lui si può evitare che l’ozioso sfrutti il volenteroso fermo restando la necessaria solidarietà da attuare nei confronti di coloro che non hanno possibilità di lavorare. 

 

IL CAPITALE UMANO

Hanno ancora bisogno di farci credere che la sopravvivenza promossa a vita sia il controvalore sostanziale del lavoro come sacrificio necessario, occultando il più a lungo possibile la patente verità della vita come lavoro. Tanto meno orribile sarà la vita, tanto più ogni suo co-produttore vi si investirà per valorizzarsi, tanto più dunque il capitale dal volto umano realizzerà in ciascuno il suo valore. 

Sfondando il muro di una soggettività già carcerata dalla storia, l’economia politica trabocca all’interno di ogni essere; rapidamente livella ogni vuoto, semplicemente occultandolo. Nel momento in cui l’identico si riproduce omogeneamente al di là come al di qua della soggettività trapassata, essa perde i tratti del carcere che è sempre stata, e assume i tratti dell’azienda produttrice. Ogni azienda produttrice è una zecca, da quando il denaro si è transustanziato in credito, e il capitale fittizio valorizza sul buon nome dell’impresa. Ogni azienda stampa il suo denaro inesistente, se leggi in trasparenza, al di là della facciata, le somme rosse del suo castelletto di sconto. Così in ciascuno il capitale realizza un imprenditore di sé: fondando ogni personalità come azienda, immettendola nella circolazione apoplettica del credito, dove a circolare è la generalità del non-avere. Il capitale che si fa uomo, fa di ogni uomo il capitale, di ogni vita l’impresa del valore, di ogni persona un’azienda in debito permanente del suo senso, creditrice permanente del non-senso generalizzato.



GLI ANARCHICI E IL POTERE

La rivoluzione spagnola trascende i suoi confini spazio-temporali perché si pone come quell’esperienza che ha riassunto e concretizzato tutti i maggiori problemi, teorici e ideologici, tattici e strategici, maturati dal movimento operaio e socialista fin dalla Prima Internazionale: il rapporto tra avanguardia rivoluzionaria e masse popolari, fra movimento specifico e organizzazione sindacale, le alleanze militari e politiche fra forze autoritarie e libertarie, le implicazioni e la verifica della reale portata dell’internazionalismo, la dimensione creativa e pluralistica dell’autogestione sono tutte questioni infatti che si trovano per intero nel particolare avvenimento iberico e che come tali gli conferiscono una valenza interpretativa generale. Essa rende evidente questa valenza «transitoria» che rappresenta, in una dimensione tragica e titanica, l’universalità dei problemi rivoluzionari di ogni ordine e grado. In modo particolare è possibile rilevare il problematico intreccio fra gli elementi ideologici propri all’anarchismo e quelli specifici della sua versione spagnola perché questa, esprimendosi a livello di massa, mette in luce una situazione del tutto nuova e complessa. Contemporaneamente allo sviluppo quantitativo dell’anarchismo (diffusione ed estensione della CNT-FAI, aumento vertiginoso dei suoi aderenti), assistiamo paradossalmente ad un immiserimento qualitativo dei suoi caratteri peculiari, delle sue tendenze e delle sue aspirazioni ideologiche. In altri termini, mano a mano che le organizzazioni anarchiche crescono e si estendono durante il periodo rivoluzionario, si restringono –quasi proporzionalmente – i valori etici e scientifici del patrimonio ideologico libertario. Questo progressivo abbandono degli insegnamenti teorici pone in risalto la specificità storica dell’esperienza spagnola, che si evidenzia, appunto, in questa contraddittorietà: da un lato la diffusione e l’estensione quantitativa delle organizzazioni storiche, dall’altro la riduzione qualitativa del sapere e dei valori rivoluzionari. La
partecipazione al governo o la resa di fronte alle manovre controrivoluzionarie dei comunisti nelle giornate di maggio del ’37 a Barcellona non rappresentano che gli esempi più clamorosi, perché più noti, di tale incongruenza che di fatto si risolve nella generale condotta suicida delle organizzazioni CNT-FAI rispetto alle possibilità operative aperte dalla forza storica del movimento anarchico iberico. Questo venir meno dei presupposti ideologici è dovuto all’accettazione della falsa dicotomia strategica fra guerra e rivoluzione, fra fronte popolare e autonomia libertaria, fra antifascismo e antiautoritarismo. L’aver praticato progressivamente tutti i primi termini di questo dilemma (guerra, fronte popolare, antifascismo) a scapito dei secondi (rivoluzione, autonomia libertaria, antiautoritarismo), l’aver accettato l’immediata realtà storica e non aver invece esplorato la realtà possibile del progetto anarchico ha portato l’anarchismo spagnolo alla contraddizione di se stesso. Va detto però che contemporaneamente a
tale incongruenza l’anarchismo esprime anche una diversa realtà. A riaffermare infatti i suoi principi rimangono le migliaia di anonimi militanti che, al fronte come nelle collettività, tentano di creare, fra enormi difficoltà tecniche e materiali, fra il sistematico sabotaggio dei controrivoluzionari comunisti, l’attacco nazi-fascista e il tradimento della sinistra legalitaria – tutte forze obiettivamente confluenti – la più grande realizzazione politica e sociale del riscatto umano. In tutti i casi, la contrapposizione all’interno del movimento anarchico spagnolo dei due momenti, quello dell’accettazione dei tempi storici e quello opposto di praticare fino in fondo quelli rivoluzionari, l’obiettiva frattura fra «dirigenze anarchiche » e masse popolari o, in termini più precisi, fra gli ambiti e le strutture organizzative della CNT-FAI e l’autonomia e la creatività libertarie, rende evidente la generale contraddizione che caratterizza l’esperienza del 1936-39, investendo l’analisi anarchica del rapporto fra politica e potere. Si sa infatti che per l’anarchismo queste due dimensioni sono equivalenti perché vengono identificate in uno stesso agire, precisamente nei moventi e negli esiti del principio di autorità. Esse si risolvono nel medesimo modo, quando tale principio è posto sul piano dell’effettività storica. Detto in altra maniera: la politica è la fenomenologia del potere, di cui lo Stato rappresenta l’espressione storicamente più compiuta perché ne esprime al tempo stesso la forma simbolica e la valenza reale. Le esperienze rivoluzionarie sembravano confermare, fino alla soglia della rivoluzione spagnola, questo assunto della sostanziale identificazione tra politica e potere, questo schematismo logico di spiegazione della azione sociale diretta a fini coercitivi. Si può insomma dire che, se non vi è stata una convincente aderenza alla tesi del modello euristico, non vi è stata neppure una decisiva smentita alle sue prerogative ideologiche: ogni qual volta il moto rivoluzionario aveva imboccato –non importa sotto quali spoglie – la via della ricomposizione del principio di autorità, la sua dimensione emancipatoria si era affossata entro i canali del tutto prevedibili della logica istituzionale e razionalizzatrice dell’esistente. Ebbene, il caso spagnolo ha posto in discussione tale teorema anarchico, evidenziandone la sua mera radice ideologica. Lo svolgimento storico che va dal 19 luglio 1936 al 7 maggio 1937 segna in Catalogna, cioè nella regione in cui gli anarchici furono la forza maggioritaria del moto emancipatore, una svolta epocale. Esso chiude il ciclo del protagonismo operaio e socialista di segno rivoluzionario, mettendo fine in Europa all’età delle rivoluzioni popolari, anzi, per meglio dire, alla prima e ultima rivoluzione proletaria dell’Occidente europeo. Contemporaneamente, apre un’altra fase storica la quale si trova segnata da una latente ambivalenza. In essa permangono due tendenze eterogenee: da un lato risulta esaurita la spinta sovversiva del movimento operaio, dall’altra, invece, insiste l’esigenza di una trasformazione radicale della società, anche se non vi è più un esplicito soggetto ad impersonificare l’azione. L’anarchismo in Spagna rende evidente la sostanziale impossibilità di un passaggio non traumatico dalla società del dominio alla società della libertà, ma per far questo deve anche vanificare la credenza, del tutto mitica, di un’univoca modalità trasformatrice che sarebbe data dal protagonismo insostituibile e determinante della forza proletaria. Proprio perché è stato il movimento anarchico ad essere il solo movimento che ha reso rivoluzionario il proletariato, è da allora possibile constatarne l’esauribilità sociale, nello stesso tempo in cui si manifesta, palese, la persistenza «transtorica» dell’istanza universale aperta dai princìpi del 1789. Cioè, le condizioni storiche della rivoluzione socialista vengono meno, ma la domanda di una trasformazione radicale dell’esistente continua a sussistere.