“da quando ho conosciuto l’arte sta cella è diventata una prigione”
Nella sezione di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia il regista Fabio Cavalli prova il “Giulio Cesare” di Shakespeare: come attori ci sono i detenuti, dei quali alcuni segnati dal “fine pena mai”. Quotidianamente, nelle celle, nei cubicoli dell’ora d’aria, nei bracci del penitenziario, il film documenta le cadenze oscure delle giornate dei reclusi e di come, attraverso prove che sempre più li coinvolgono nel profondo, s’innerva di forza e di vita la pagina del grande testo shakespeariano, fino al successo della messa in scena, davanti ad un pubblico, nella sala teatrale di Rebibbia. Lo spettacolo teatrale che si sta preparando è il celebre Giulio Cesare di William Shakespeare e i due registi, col loro docu-film parallelo, ci permettono di assistere alla genesi della performance fino al suo epilogo; dai provini dei detenuti all’assegnazione dei ruoli, dalla scelta di far recitare ognuno col proprio dialetto, in modo da dare un senso d’unione ancora più profonda, fino alle prove così intense da riuscire a mescolare realtà e finzione. E’ questa la grande abilità dei Taviani, in Cesare deve morire, quella del saper distinguere realtà carceraria e finzione scenica, ma all’occorrenza saper anche sovrapporle perfettamente tanto da far scattare una lecita domanda nello spettatore: staranno ancora recitando? Sì, o forse no… il fatto è che i detenuti, condannati chi per criminalità organizzata, chi per reati vari, chi per una decina d’anni e chi con il fatidico “fine pena mai”, quando parlano degli uomini d’onore, dell’antica Roma al tempo di Cesare, sanno di cosa stanno parlando, di quell’onore che hanno conosciuto, diverso ma a cui,
comunque, hanno creduto. Lo stesso per il quale ora scontano la loro pena. E ancora, quando maneggiano le passioni, la rabbia, la vendetta, la congiura, l’omicidio brutale e la morte, sanno di cosa parlano perché l’hanno vissuto o visto. Tutta la narrazione è giocata su questo filo sottile tra realtà dietro le sbarre e finzione teatrale, tra battute imparate dal copione e frasi di vita vera, o almeno vera in quel piccolo mondo recluso di Rebibbia. In verità molti dei 76 minuti del film (decisamente più breve della media) più che raccontare il lavoro di una compagnia di teatro all'interno di un carcere nei sei mesi di prove per lo spettacolo, ci mostrano i passaggi più importanti del loro "Giulio Cesare". In attesa che il palco sia pronto, gli interpreti provano nel cortile della mezzora d'aria, in biblioteca, nei corridoi. Gli altri detenuti, ma anche le guardie carcerarie, osservano, partecipando, con entusiasmo o distacco, alla tragedia che a poco a poco prende forma. Gli attori sono dotati di una certa efficacia, soprattutto perché Cavalli li guida con intelligenza, scegliendo di farli recitare nel loro dialetto, in modo che "Cesare deve morire" diventi anche un notevole mosaico di suoni. Le scene delle prove, girate in bianco e nero, sono più interessanti di quelle a colori dello spettacolo finito, concentrate all'inizio e alla fine.
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