1936
Mentre le masse premono per la collettivizzazione, i capi dell'anarchia cominciano a vacillare, non credono più realizzabile il programma della vigilia. La spontaneità rivoluzionaria delle masse non trova sbocco organizzativo coerente. Durruti se ne rende conto. Gli dà fastidio il carattere burocratico del Comitato Centrale delle milizie. Capisce che li dentro la rivoluzione non si farà mai. Preferisce tornare a combattere. Forma la sua colonna, la colonna Durruti, e parte per il fronte d'Aragona, deciso a fermare l'offensiva fascista. "È il 24 luglio 1936. Una colonna di 3000 volontari, che man mano s'ingrossa. Sono nella maggioranza operai, armati solo di fucili. Emilienne insegue il marito su un camion. Durruti pensa soltanto al combattimento, è ossessionato dall'idea di liberare Saragozza, capitale dell'Aragona, caduta nelle mani dei fascisti. Un punto strategico, e una città carica di tradizioni libertarie. Per tenerla i franchisti impiegano i volontari più reazionari, i fanatici Réquetés di Navarra. Durruti vuole giungere in tempo per salvare la popolazione, ma la città è già un cimitero. Si accampa a venti chilometri, a Bujaraloz, sulla riva dell'Ebro. Avesse potuto occupare subito Saragozza, avrebbe raggiunto Bilbao sulla costa atlantica e la guerra sarebbe finita forse con la vittoria degli anarchici. Ma nessuno, da Madrid, lo aiuta. Come comandante Durruti si rivela cauto, attento ai consigli; non è un generale, ma un coraggioso combattente del popolo. Non è un sanguinario, non fa ammazzare alla cieca fascisti e preti. Cresciuto nella guerriglia urbana, deve adattarsi alle regole dell'organizzazione militare che controlla una vasta zona e ha di fronte a sé un fronte tenuto da militari di carriera. Durruti si batte contro l'improvvisazione e la demagogia, salva i parroci che la popolazione giudica innocenti, rimanda i volontari più esaltati:
e Qui non basta la forza fisica. Ci vuole un'organizzazione». La colonna Durruti è l'unica che avanza in direzione di Saragozza, ma ben presto resta isolata perché il governo non l'appoggia e non compie alcuna azione militare per alleggerire il sacrificio in vite umane, che è ingentissimo. Nel contempo si scatena sulla «colonna di ferro» di Durruti, leggendaria tra gli anarchici, tutto l'odio e la diffamazione dei fascisti e dei moderati. Più cauti, i comunisti esaltano la comune azione antifascista. Solo i sovietici si concedono qualche sfottitura: Durruti è dipinto nelle corrispondenze piene di menzogne del russo ll'ja Erenburg come un ingenuo a oltranza. Ma nell'autunno del 1936 la CNT conta nelle proprie file i tre quarti dei lavoratori catalani, è una forza che non si può ignorare. I capi della CNT e della FAI sono operai onesti e preparati; la diffamazione nei loro confronti risulterebbe controproducente. Meglio cercare di legarli a un impegno puramente antifascista, meglio dire che Durruti vuole l'unità con i comunisti e i repubblicani. E quello che il Fronte popolare riesce a far credere. Intanto il nome della colonna Durruti è diventato comodo paravento per scaricare sugli anarchici la responsabilità di tutto quanto di spiacevole una guerra comporta. Violenze, requisizioni, prepotenze commesse da qualsiasi formazione antifranchista vengono addebitate alla colonna Durruti, che è invece l'unica il cui comandante abbia fatto drasticamente cessare ogni forma di abuso nei confronti della popolazione civile. Durruti tiene fino a venti comizi al giorno per spiegare alle milizie i motivi della lotta antifranchista e galvanizzare gli animi. La colonna, attrezzata di sanità e cucine, dispone di una tipografia da campo portatile e un settimanale proprio, "Frente" e di una potente stazione radio che diffonde notizie e commenti ed è conosciuta in tutta Europa; da tutto il mondo giungono i volontari attratti dalla fama di questi anarchici; si arruola nella colonna Durruti anche la scrittrice francese Simone Weil. Quando i fascisti si avvicinano a Madrid, Durruti decide di accorrere in sua difesa. Se Madrid cade il prestigio dei franchisti sale alle stelle. Durruti si batte per scongiurare il pericolo. Ma sa benissimo che la vittoria sul fascismo non chiuderà la partita; afferma: «Forse, un giorno, il nostro governo tornerà ad aver bisogno dei militari ribelli, per schiacciare il movimento operaio. Per la pace e la tranquillità dell'Unione Sovietica Stalin ha abbandonato i lavoratori tedeschi e cinesi alla barbarie fascista. A Hitler e Mussolini rompiamo più le scatole oggi noi, con la nostra rivoluzione, di tutta l'armata rossa. Mostriamo col nostro esempio alla classe operaia tedesca e italiana come ci si deve comportare col fascismo. Non mi aspetto nessun sostegno, da parte di nessun governo del mondo, per una rivoluzione del comunismo libertario».