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giovedì 3 gennaio 2019

CABROS DE MIERDA di Gonzalo Giustiniano


La Victoria, 1983. Gladys, 32 anni, conosciuta come “la francese” e una giovane donna cilena, bella e attraente, che vive alla giornata in una baraccopoli di Santiago nel Cile di Pinochet. Gladys vive con sua madre e una figlia piccola, entrambe chiamate Gladys. Lei è conosciuta da tutto il vicinato come “La francese” ed è un’attivista politica che prende in casa molti figli di desaparecidos, tra cui Vlady. Le tre Gladys ospitano un giovane e innocente missionario nordamericano chiamato Samuel Thompson giunto nel Terzo Mondo per predicare la parola di Dio e il valore del progresso. Il giovane sacerdote americano si trova catapultato nella dura realtà cilena degli anni della repressione dopo la morte del Presidente Allende e la presa di potere del generale Pinochet. Con la sua videocamera, Samuel riprende le persone mentre lottano per riuscire a sbarcare il lunario tra cucine comuni, bambini senza genitori e le prime proteste di massa. Con immagini reali e inedite che fungono da testimonianza storica e legale, come ad esempio nel caso dell’omicidio del sacerdote Jarlan. La narrazione ruota essenzialmente su due piste: quella personale dell’ingenuo sacerdote travolto dalla sensualità e dalla forza della sua ospite e quella più politica. Gli sgherri di
Pinochet agiscono indisturbati e seminano il terrore in una comunità che li protegge e denuncia i ribelli. Gran parte della storia è vista prima di tutto dagli occhi stralunati del piccolo Vladi che cerca nel gringo capitato per caso nella sua casa l’amore che non può più avere dal padre, sparito per ragioni politiche. Lo sguardo del giovane interprete con i suoi grandi occhiali buca letteralmente lo schermo al pari della fisicità esibita con garbo e ironia da Gladys. Giorno dopo giorno Samuel incontra persone, dà messaggi di fede, fotografa volti e luoghi segnati dal disagio e dalla povertà, si avvicina a Gladys e, attirato dalla sua bellezza, stringono un appassionato legame fisico che non tiene conto della lontananza, delle loro ideologie e dei loro paesi di origine. Samuel finisce per essere anch'esso protagonista del movimento anti-governativo contro la dittatura di Pinochet, che in quegli anni dà una forte e violenta risposta al regime, filma e aiuta Gladys nelle dimostrazioni di protesta, viene arrestato e tenuto prigioniero nei luoghi di tortura e detenzione del regime di Pinochet.
Nel film ci sono molte preziose immagini di repertorio in bianco e nero sgranato sui drammatici avvenimenti di quegli anni che si integrano perfettamente nel contesto della narrazione.
Cabros de Mierda è rigoroso e bilanciato nel raccontare il crudo reale visto dal punto di vista di uno straniero, che diventa parte integrante della comunità. È un’opera sulla forza delle donne, capaci sì di sedurre con uno sguardo e una battuta, ma anche di rischiare la vita per i propri ideali. La visione scorre senza perdere colpi e arriva al suo culmine di drammaticità verso un finale che non nasconde neanche i dettagli più crudi, pur passando per momenti romantici intensi e delicati. Ma Cabros de mierda non è soltanto un film di denuncia, un urlo di rabbia di chi ha vissuto la tragedia sulla propria pelle. Cabros de mierda, al contrario, oltre a mettere in scena uno dei più grandi crimini contro l’umanità, solleva anche importanti questioni riguardanti principalmente la religione, la differenza tra essere praticanti per convenzione ed operare realmente il bene e, soprattutto, l’ipocrisia che si nasconde dietro a certi comportamenti. Particolarmente emblematica, a tal proposito, la scena in cui vediamo un anziano Samuel incontrare uno dei suoi torturatori, convertitosi ormai al Cristianesimo e dedito a preghiere collettive, affermando di essersi pentito e di essere stato perdonato da Dio.
Il progetto è nato mentre osservavo, in una saletta del Museo della Memoria e dei Diritti Civili, le immagini che ho filmato più di 30 anni fa nel Cile della dittatura di Pinochet. All’epoca avevo 27 anni e da quattro non vivevo più in Cile. Mi trovavo in Francia dove lavoravo a un documentario per la televisione francese intitolato Chile 10 years of the Coup D’etat: Pinochet’s Land che voleva denunciare al mondo cosa stava davvero accadendo in Cile. Decisi dunque di tornare per capire meglio cosa stesse succedendo nelle baraccopoli. Ricordo con quanto affetto i sacerdoti Dubois e Jarlan mi hanno accompagnato e orientato in quel viaggio. Il giorno che Jarlan e stato ucciso ero con lui e le mie riprese sono poi servite come prove nel processo istruito dopo la sua morte. Vedendo queste immagini riprese in un Cile cosi diverso, sono arrivato quasi a percepirmi come il personaggio di una storia e ho iniziato a chiedermi se quelle cose fossero realmente accadute e addirittura se io fossi mai stato li. Il cinema mi ha permesso di esplorare la vita ma anche la morte e Cabros de mierda e basato sulla vita di tutti i giorni dei molti, soprattutto donne delle baraccopoli, costretti a vivere in tempi cosi feroci.” (Gonzalo Giustiniano)


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