La tesi di fondo è che il crescente ricorso alla malattia quale chiave di lettura dei problemi sociali non rappresenti affatto un passaggio da una visione orientata in senso morale ad una più neutra, ma - semmai - un passaggio ad una strategia alternativa. E' una transizione che riguarda prima di tutto coloro che si fanno attivi promotori del cambiamento (in veste di psichiatri o di specialisti della medicina), e che è legata al livello in cui si verifica il cambiamento stesso (la psiche e il corpo dell'individuo). Il problema in oggetto, e la persona che dovrebbe andare incontro al cambiamento, rimandano inevitabilmente a questioni morali, con buona pace della retorica della medicina,
Se anche questa retorica ci vuole far credere che la responsabilità è tutta dell'individuo (piuttosto che della società), e che quindi il cambiamento dovrebbe investire l'individuo (e non la società), la questione non cambia. Dopo tutto, si tratta pur sempre di un imperativo morale: l'idea è che, se il problema può essere trattato per via medica, e la persona può essere trasformata di conseguenza, allora sia doveroso procedere in tale senso.
Etichette come "salute" e "malattia", per altro, non hanno soltanto un effetto depoliticizzante. A questo se ne aggiunge anche uno escludente. Non è un caso che il movimento femminile si sia dato l'obbiettivo di influire di più sullo sviluppo dei servizi sanitari. Le donne non si limitano a criticare il potere a cui si sono arrese, ma denunciano l'utilizzano delle differenze biologiche - e di quelle, vere o presunte, di salute - per escluderle da molti aspetti della vita sociale.
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