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giovedì 24 gennaio 2019

Il Surrealista di Arthutro Scharwz

Un giorno mi è stato chiesto se il Surrealismo potesse essere italiano. Il Surrealismo non può essere italiano, così come non può essere francese, belga, tedesco o spagnolo. Dare al Surrealismo un luogo d’elezione geografico è già negarlo. Di che nazionalità era il primo surrealista, l’uomo che inventò la ruota? Essere surrealisti significa, in primo luogo, essere anarchici, con tutto ciò che il termine comporta, e cioè pura rivolta cosciente, rifiuto di ogni principio di autorità, di ogni sistema, di ogni gerarchia, di ogni violenza. Il Surrealismo, ricordiamolo, è amore, poesia, rivoluzione. Al pari del poeta, dell’innamorato, dell’alchimista, il surrealista è un paria, un solitario, anche quando milita in un gruppo, e allora lo stesso gruppo è un gruppo emarginato, fuori dal sistema, del quale nega le regole del gioco. La solitudine del surrealista è quella di Nietzsche e di Stirner, dove il confine tra solitudine ed egoismo è difficile da ritrovare. Perché l’amore del prossimo è operante solamente nella misura in cui il prossimo si ritrova nel Sé. L’amore del Sé è il presupposto alla consapevolezza del Sé, e capire se stessi significa capire e amare l’altro. La trasformazione della società passa necessariamente dalla trasformazione dell’individuo; pensare l’inverso significa collocarsi in una prospettiva cattolica o marxista, per cui la felicità non è mai una realtà da conquistare per sé, ma una promessa per altri che dovrebbe realizzarsi in un ipotetico futuro, a patto, evidentemente, che si accetti di rinunciare oggi a quello che ci viene promesso per domani,
esattamente come l’oste il cui cartello precisa: “Domani si fa credito”. L’egoismo del surrealista è individualismo nel senso etimologico primo della parola “individuo” (in-dividus), e cioè
in-diviso: il surrealista aspira alla totalità, lotta per incarnare la lettera e lo spirito della rivoluzione, per essere verbo e azione, per conciliare il sogno e la realtà. Sui muri della Sorbonne una mano anonima aveva tracciato nel ’68: “Prendo i miei desideri per realtà perché credo nella realtà dei miei desideri”. Più che di Surrealismo il termine implica già il concetto di scuola, di movimento organizzato si dovrebbe parlare di surrealisti, o, meglio ancora, di spirito surrealista, così come si parla di spirito anarchico. 
Il surrealista, che è l’Unico (nel senso di Stirner), nasce in qualsiasi situazione perché egli è il Ribelle per antonomasia. Ascolta il suono della luce che cambia. Surrealismo e Dadaismo sono gli unici movimenti dell’avanguardia storica che siano nati non per impulso dei pittori ma dei poeti: di poeti che erano teorici anche della pittura. Per i surrealisti e i dadaisti l’arte andava intesa come attività totale, sottratta alla distinzione di arte e vita, alla divisione del lavoro, all’opposizione di teoria e prassi, sogno e veglia ecc. Ricordiamo una delle più citate “insegne” del Surrealismo, quel verso di Lautréamont per cui “la poesia deve essere fatta da tutti e non da uno”. Breton aveva fatto suo il materialismo esoterico della filosofia alchimistica. Per il Surrealismo la bellezza è ovunque. Questo atteggiamento
ottimista è proprio del rivoluzionario. L’ottimismo dei
surrealisti era pari alla disperazione per l’infamia dell’ordine sociale esistente. Alla domanda cosa resta del Surrealismo oggi, penso a una filosofia della vita, a uno stato d’animo, a una morale, una purezza, un bisogno di libertà...
Le opzioni fondamentali del Surrealismo conservano tutta la loro carica eversiva perché esprimono le aspirazioni più profonde dell’uomo. Queste aspirazioni non cambiano ogni vent’anni, o venti secoli. Breton può quindi a buon diritto sostenere che la nascita di un movimento più emancipatore non infirma in nulla le tesi fondamentali del Surrealismo sui piani della poesia, della libertà, dell’amore. Quello che deve essere ripensato in funzione di dati interamente nuovi è il problema sociale.
Il Surrealismo, “nato da un’affermazione di fede senza limiti nel genio della gioventù”, ha visto riaffermare, proprio dalla gioventù, nelle giornate del maggio 1968, le sue opzioni fondamentali. Breton se n’era andato da poco più di un anno, eppure la sua presenza tra i giovani era più reale di quella di qualsiasi altro rivoluzionario.

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