Compagna, compagno: Buona notte, sera, giorno in qualsiasi sia la vostra geografia, il vostro tempo e il vostro modo.
Buona alba.
Vorrei chiedere alle compagne, e compagni che vengono da fuori, in particolare ai mezzi di informazione indipendenti, compagni, la vostra pazienza, tolleranza e comprensione per ciò che dirò, perché queste saranno le mie ultime parole in pubblico prima di cessare di esistere.
Mi dirigo a voi e a coloro che attraverso di voi ci ascoltano e ci guardano. Forse all'inizio, o nel trascorso di queste parole crescerà nel vostro cuore la sensazione che qualcosa è fuori luogo, che qualcosa non quadra, come se stessero mancando uno o vari pezzi per dare senso all'enigma che vi si mostrerà. Forse poi, giorni, settimane, mesi, anni, decadi dopo si capirà quello che adesso diciamo.
É un bene che sarà attraverso i mezzi di informazione liberi, alternativi, indipendenti, che questo arcipelago di dolori, rabbie e lotta dignitosa con cui ci chiamiamo.
Benvenute e benvenuti a la realtà zapatista.
Quando irrompemmo e interrompemmo nel 1994 con sangue e fuoco, non iniziava la guerra per noi, le zapatiste e gli zapatisti. La guerra dall'alto, con la morte e la distruzione, la spoliazione e l'umiliazione, lo sfruttamento e il silenzio imposto al vinto, la stavamo subendo da dei secoli precedenti. Ciò che per noi inizia nel 1994 è uno dei molti momenti della guerra di quelli in basso contro quelli in alto, contro il loro mondo. Quella guerra di resistenza che si combatte quotidianamente nelle strade di qualsiasi angolo dei cinque continenti, nei campi e nelle montagne.
Era ed è la nostra come quella di molte e molti del basso una guerra per l'umanità e contro il neoliberismo.
Contro la morte pretendiamo la vita.
Contro il silenzio esigiamo la parola e il rispetto.
Contro l'oblio, la memoria.
Contro l'umiliazione e il disprezzo, la dignità.
Contro l'oppressione, la ribellione.
Contro la schiavitù, la libertà.
Contro l'imposizione, la democrazia.
Contro il crimine. la giustizia.
Chi, con un po' di umanità nelle vene potrebbe o può mettere in discussione queste richieste? E allora molti ci ascoltarono.
La guerra che abbiamo iniziato ci ha dato il privilegio di arrivare ad orecchi e cuori attenti e generosi e a geografie vicine e lontane.
Mancava quel che mancava e manca quel che manca però raggiungemmo allora lo sguardo dell'altro, il suo ascolto e il suo cuore.
Dunque sentimmo la necessità di rispondere ad una domanda decisiva:
Cosa viene dopo?
Nei tenebrose ipotesi della vigilia non entrava la possibilità di porci alcuna domanda. Così che questa domanda ci portò ad altre: Preparare ai prossimi a cui tocca la strada della morte?
Formare ulteriori e migliori soldati?
Investire sforzi nel migliorare la nostra malconcia macchina per la guerra?
Simulare dialoghi e disponibilità alla pace, però continuare a prepararci per nuovi attacchi?
Ammazzare o morire come unico destino?
O dovevamo ricostruire la strada della vita, questa che avevano rotto e continuano a rompere quelli in alto?
La strada non solo dei popoli indigeni, ma anche dei lavoratori, studenti, maestri, giovani, contadini, oltre a tutte quelle differenze che si celebrano in alto mentre in basso si perseguono e si puniscono.
Dovevamo inserire il nostro sangue nella strada che altri dirigono verso il Potere o dovevamo voltare il cuore e lo sguardo verso quelli che siamo e a quelli che sono come noi, cioè i popoli originari, guardiani della terra e della memoria?
Nessuno lo ascoltò allora, però nei primi balbettii che furono le nostre parole avvertimmo che il nostro dilemma non era tra negoziare o combattere, ma tra morire o vivere.
Chi avesse avvertito allora che questo iniziale dilemma non era individuale, forse avrebbe capito meglio quello che è successo nella realtà zapatista negli ultimi 20 anni.
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