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giovedì 26 dicembre 2019

La Società del controllo di Gilles Deleuze

I differenti "internati" o ambienti di reclusione attraverso i quali l'individuo passa sono delle variabili indipendenti: ogni volta si presume di ricominciare da zero, ed un linguaggio comune a tutti questi ambienti esiste, ma è analogico. Tanto che i differenti "controllati" sono delle variazioni inseparabili, che formano un sistema a geometria variabile il cui linguaggio è digitale (il che non vuol dire necessariamente binario). Le reclusioni sono modelli-stampi, delle distinte modellature, mentre i controlli sono una modulazione, come una modellatura auto-deformante, che si modifica continuamente, da un istante all'altro, o come un setaccio le cui maglie cambiano da un punto all'altro. Lo si vede bene sulla questione dei salari: la fabbrica era un corpo che portava le sue forze interne ad un punto di equilibrio, il più alto possibile per la produzione, il più basso possibile per i salari; ma nella società del controllo l'impresa ha sostituito la fabbrica, e l'impresa è un'anima, un gas. Senza dubbio già la fabbrica conosceva il sistema dei premi, ma l'impresa si sforza più profondamente d'imporre una modulazione di ogni salario, in stati di perpetua metastabilità che passano attraverso sfide, concorsi e colloqui estremamente comici. Se i giochi televisivi hanno tanto successo è perché esprimono adeguatamente la situazione dell'impresa. La fabbrica costituiva gli individui in corpo, per il doppio vantaggio e del padronato che sorvegliava ogni elemento nella massa, e dei sindacati che mobilitavano una massa di resistenza; ma l'impresa non cessa di introdurre una rivalità inespiabile come sana emulazione, motivazione eccellente che oppone gli individui tra di loro ed attraversa ognuno, dividendolo in se stesso. Il principio modulatore del "salario al merito" non manca di tentare anche la stessa Educazione nazionale: in
effetti come l'impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola ed il controllo continuo a prendere il posto dell'esame. Questo è il sistema più sicuro per legare la scuola all'impresa. Nelle società disciplinari non si finiva mai di ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nelle società del controllo non si è mai finito con nulla, in quanto l'impresa, la formazione, il servizio sono gli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, come di un deformatore universale. Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l'individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa. Le società disciplinari non hanno mai riscontrato incompatibilità tra i due, il potere è al tempo stesso massificante ed individualizzante, cioè costituisce come corpo quelli sui quali si esercita e modella l'individualità di ciascun membro del corpo. Nelle società del controllo, al contrario, l'essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è una mot de passe [parola d'ordine nel senso di pass-word, codice d'accesso], mentre le società disciplinari sono regolate da mot d'ordre [parola d'ordine nel senso di slogan], sia dal punto di vista dell'integrazione che della resistenza. Il linguaggio digitale del controllo è fatto di cifre che segnano l'accesso all'informazione, o il rifiuto. Non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo. Gli individui sono diventati dei "dividuali", e le masse dei campioni statistici, dei dati, dei mercati o delle "banche". È forse il denaro che meglio esprime la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l'oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete. La vecchia talpa monetaria è l'animale degli ambienti di reclusione, mentre il serpente è quello delle società del controllo. Siamo passati da un animale all'altro, dalla talpa al serpente, nel regime in cui viviamo, ma anche nel nostro modo di vivere e nei nostri rapporti con l'altro. 

PAGINA DI ZOOLOGIA di Erri De Luca

Anche  quest'anno ho sentito il maiale 
di là dal campo gridare afferrato. 
Poi soffia rauco, sbuffa, per la fatica di essere ammazzato. 
Anche quest'anno dai vicini è festa, 
tutti i sensi ricevono un regalo dal coltello, 
tranne l'udito, Il mio. 

Un pesce è saltato dall'onda per addentare una farfalla bianca 
a volo spezzettato. Il pesce ritorna sul fondo 
ha gustato la carne dell'angelo. 

Ho visto la lepre correre sopra la neve 
lascia orme a matita dove spinge coi salti. 
Affondavo al polpaccio nel pendio 
la lepre saltellava spiritosa 
per ammazzarla serve, oltre al fucile, 
un'invidia più dell'ammirazione. 

Quando una donna è uccisa va sprecata a valanghe 
una quantità di amore tropicale. Resto derubato 
della felicità che poteva arrivare fino a me. 
Quando è ammazzato un uomo mi passa per la testa: 
c'è meno concorrenza per gli abbracci. 
Pensieri di animale poco, e da poco, addomesticato. 

L’Orgoglio Anarchico ai tempi di Amedeo Bertolo

L’orgoglio anarchico è l’orgoglio di far parte di una minoranza agente che opera nella storia ma contro la storia, un altro cruciale filo conduttore, che contestualizza questo orgoglio, è l’urgente necessità di attualizzare l’anarchismo. Già all’inizio degli Sessanta, quando comincia il suo impegno militante in un movimento senescente, la carica dirompente dell’anarchismo classico sembra essersi diluita, come scrive, “nella stanca e retorica riproposizione di un’obsoleta vulgata anarchica”. Il passaggio dalla modernità alla postmodernità, le cui dinamiche non vengono colte nell’immediato (quanto meno in Italia), ha infatti spinto l’anarchismo nel vicolo cieco di una pura reiterazione che gli ha tolto incisività. È il salutare scossone del 1968 a riattivare una vitalità solo sopita, segnando al contempo un radicale cambiamento di paradigma: l’orizzonte non è più il domani, la società del futuro alla quale accedere attraverso una rivoluzione palingenetica, ma è il qui e ora, è il vivere e agire da anarchici nella società attuale stando ben attenti a non farsi assimilare da questo qui e ora.
L’urgenza è dunque quella di avviare una riflessione a tutto campo, alla quale deve corrispondere una sperimentazione a tutto campo, per definire i contorni di una rottura sociale che non si configura più come le gran soir, ma come una mutazione – culturale, immaginaria, etica… - altrettanto epocale e sovversiva, in grado non solo di ridefinire valori e comportamenti, ma di dissolvere l’inconscio gerarchico che è in tutti noi. Perché lo Stato è soprattutto nella testa della gente, dei servi più ancora che dei padroni”.   

giovedì 19 dicembre 2019

PIAZZA FONTANA Cinquant'anni fa - L'arresto di Valpreda

Pietro Valpreda è milanese, ha 37 anni, è figlio di piccoli commercianti, ha la passione della danza e di professione fa il ballerino di teatro. Pietro frequenta i circoli anarchici ed anche, come tutti gli artisti e gli alternativi di allora, i locali intorno a Brera. Agli inizi del 1969 si trasferisce a Roma, dove con alcuni giovanissimi compagni mette insieme un gruppo, chiamato "22  Marzo", un piccolo gruppo al cui interno si infiltra subito un fascista, Mario Michele Merlino e vi viene distaccato addirittura un poliziotto, Andrea lppoliti. Valpreda è ben noto alla polizia milanese perché ha qualche anno più della media, fa un lavoro saltuario, è un tipo estroverso che non teme di farsi notare. Pietro ha la erre arrotata ed è un po' "bauscia"  come si dice a Milano, dove il genere è diffuso. Nelle ultime manifestazioni ha coniato  gli slogan: "Satana Lucifero Belzebù” il più truculento "bombe, sangue, anarchia" urlati a squarciagola e palesemente ironici e provocatori, come è tipico del suo repertorio e come è anche quel "Il Papa alla ghigliottina" per cui viene incriminato dal Giudice Amati per "offesa a capo di Stato estero". 
Valpreda è un poco burlone, "un simpatico  casinista" lo ha definito una volta Licia Pinelli, ma è anche persona sensibile e di buona cultura, molto socievole e che in casa ha una ricca biblioteca. 
Pino e Pietro si conoscono bene, anche se Pinelli non sempre condivide quel fare goliardico e tra i due nasce ogni tanto qualche screzio e qualche litigio — come si conviene tra compagni  — ma nulla di serio e tanto meno duraturo. I media ingigantiranno poi indecentemente questo aspetto, al solo scopo di denigrare Valpreda
La mattina del 15  dicembre, mentre si svolgono i fuerali delle vittime, Pietro Valpreda, 36 anni, milanese, viene fermato a Milano all'interno del Palazzo di Giustizia mentre alle 10,35 esce dall'ufficio del Giudice Amati che lo aveva convocato tempo prima per una imputazione di "offesa al Papa". 
Così racconta Valpreda: “Il giudice vuole vedermi. Così mi comunica Improta, il quale aggiunge che il mio avvocato mi attende al palazzo di giustizia. Erano ormai due giorni e una notte che non conoscevo un attimo di respiro. La testa mi ciondolava sul petto, gli occhi mi bruciavano, mi sentivo sporco, coi vestiti stazzonati, la barba che mi pungeva. Capii che anche questo piccolo particolare del non consentire di radersi è un modo di stroncare l'individuo caduto nelle mani della polizia. Ero veramente a terra, mi sentivo uno straccio, ma il peggio doveva avvenire. Attraversiamo il cortile del “palazzaccio”, saliamo una rampa di scale, percorriamo corridoi bui e tetri. Mi trovo seduto su una panca contro il muro. Mi guardo attorno e a un tratto noto quattro persone che spiccano in mezzo agli altri agenti trasandati. Mi accompagnano. Sono quattro signori pressappoco della mia statura, ma hanno tutti un aspetto lindo e ordinato, il loro bel cappottino alla moda, la camicia bianca con la cravatta ben annodata, le guance rasate di fresco, i capelli pettinati come si deve. Sembrano pronti per andare a una festa. Quale festa, la mia? Così trascorrono le ore, non saprei dire con esattezza quanto tempo ho passato su quella panca. A un certo punto riconosco l'avvocato Calvi. Si fa largo tra i poliziotti e mi viene incontro. Mi alzo per stringergli la mano e chiedo, con la speranza di avere finalmente un po' di luce, di uscire da questo stato di rimbambimento: " Guido! Ma che cosa sta succedendo? Cosa vogliono da me? ". Calvi mi tranquillizza dicendo che devo subire un confronto *. Per la legge, non può aggiungere altro; riesce solo a sussurrarmi: "
Stai calmo".La stanza del giudice è vasta, asimmetrica, male illuminata, cupa da mettere tristezza. Al centro troneggia il giudice, al suo fianco un uomo alla macchina da scrivere. Sulla destra, una decina di funzionari e questurini. Con me entrano i quattro figurini. Nessuno parla, nessuno si presenta. Mi guardo attorno, ma tra i presenti non vedo facce note. Qualcuno dà l'ordine di disporsi di fronte alla porta.
Comincia il confronto. Fra i cinque io sono secondo partendo dalla mia destra. Calvi mi si avvicina, cerca di rassettarmi la camicia e la cravatta spiegazzata, mi ravvia i capelli con la mano e mi dà un paio di colpetti sulla guancia esortandomi a tenere gli occhi aperti. Faccio uno sforzo per sembrare il più normale possibile. Ma non posso cancellare le trenta ore di stanchezza fisica e morale. Si spalanca la porta, entrano tre persone. Improta ha accompagnato nella stanza del giudice il famoso teste Rolandi. Ricordo che aveva un modo strano di agitare il braccio destro. Si aggiustava di continuo la sciarpa scura attorno al collo. Per tutto il breve periodo di tempo che rimase nella stanza evitò di guardarmi negli occhi. Il giudice Occorsio, si rivolge a Rolandi e gli pone la domanda di rito: " Riconosce in uno di questi signori il passeggero del suo taxi? ". Rolandi si sposta leggermente verso di noi che siamo schierati. Rivedo la scena: il tassista è un uomo robusto, ma in questo momento si stringe nelle spalle come per farsi piccolo, si curva, spingendo in avanti la testa come una tartaruga. In mezzo al suo faccione spicca il naso a patata. Sta girato verso il giudice e non alza quasi mai da terra lo sguardo sfuggente. Ha un po' l'aria furtiva, dipenderà forse anche dal vestiario dimesso. Sembra il più traumatizzato di tutti. Solleva impercettibilmente lo sguardo, lo fa scorrere velocemente su noi cinque allineati e senza esitazione mi indica con un dito dicendo in milanese:"L'è lü" (è lui).
La mia reazione, anche se ero stupito, è stata di fare un piccolo passo avanti ed esclamare: "Ma mi hai guardato bene?". Per alcuni istanti nella sala ci fu silenzio, poi Rolandi disse qualcosa, una breve frase come "Non c'è" o forse "Allora non c'è ". A questo punto intervenne l'avvocato Calvi il quale, rivolgendosi al giudice, gli fece notare che il teste aveva praticamente ritrattato. Come ho sentito io, così devono aver sentito tutti i presenti. Ma la reazione di Occorsio fu fulminea: si rivolse in fretta a quanti erano nella stanza chiedendo, quasi avesse voluto fornire lui stesso la risposta e evitarne altre: " Qualcuno ha sentito? no? Lei Rolandi conferma il riconoscimento? Bene, cancelliere, scriva che il teste conferma il riconoscimento ". E' avvenuto tutto in pochi secondi. Occorsio parla come accavallando le frasi, incastrandole l'una dentro l'altra, tutti i presenti fanno scena muta. Cade nel vuoto e nell'omertà la contestazione di Calvi sulla ritrattazione di Rolandi.
Così, con quella piccola frase in dialetto milanese, si decide il destino mio e dei miei compagni” .

La notte delle coscienze ha un tempo unico

Ubbidendo alla logica del profitto a breve termine, il valore d’uso del lavoro cede il passo al suo valore di scambio. Per quanto l’oscurantismo della nostra epoca  e la società dello spettacolo si sforzano di propagare l’istupidimento, l’insensibilità, il servilismo, la legge del più forte e del più furbo, niente potrà impedire al pensiero radicale di avanzare e di minare di nascosto lo spettacolo in cui la miseria esistenziale è elevata a virtù. 
Da quando la tirannia del lavoro è stata assorbita dalla tirannia del denaro, un grande vuoto monetizzabile si è impadronito delle teste e dei corpi.
Quelli che incitano al lavoro sono gli stessi che lo distruggono.
Quelli che osano oggi glorificare il lavoro sono gli stessi che chiudono le imprese per giocarsele in borsa alla roulette delle speculazioni borsistiche. 
La notte delle coscienze ha un tempo unico.
Non c’è riuscita possibile per le ideologie ammuffite e per le vecchie gomme sgonfie della religione rigonfiate in tutta fretta, rimesse in sesto, gettate in pasto a una disperazione che l’affarismo è bravo a rendere redditizia.
Nel bene e nel male è iniziata la fine dello sfruttamento della natura, la fine del lavoro, dello scambio, della predazione, della separazione da sé stessi, del sacrificio, dei sensi di colpa, della rinuncia al piacere, del feticismo del denaro, del potere, dell’autorità gerarchica, del disprezzo e della paura della donna, della subornazione del bambino, dell’ascendente intellettuale, del dispotismo militare e poliziesco, delle religioni, delle ideologie, della rimozione e dei suoi sfoghi mortiferi.
Non c’è che la volontà di vivere che permetta il predominio dell’essere sull’avere, del godimento sull’appropriazione, della creazione sul lavoro e dall’affinamento dei piaceri sulla redditività delle loro rappresentazioni mercantili.
Per questo dobbiamo scommettere sull’autonomia degli individui, sulla collettività che federandosi getteranno le basi di una società solidale e su quella facoltà creatrice che è in ciascuno e che la necessità di lavorare ha sempre ostacolato.

AFORISMI - Emile Henry


L'uomo ha bisogno talvolta di credere alla potenza della sua volontà; Allora entra nella lotta.

Tra gli economi di se stessi ed i prodighi di se stessi credo che i prodighi siano i migliori calcolatori.

Più amiamo la libertà è l'uguaglianza, più dobbiamo odiare tutto quanto ci oppone alla libertà e all'uguaglianza degli uomini.

E senza perderci nel misticismo poniamo il problema sul terreno della realtà, e diciamo:
È vero che gli uomini sono solo il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo in quanto vi sono uomini in carne e ossa per rappresentarle. C'è quindi un solo mezzo per colpire le istituzioni: colpire gli uomini. 

Una volontà che va fino al suicidio può generare atti di abnegazione definitivi e senza speranza.

Uno dei primi insegnamenti dell'anarchia e questo: "sviluppa la tua vita in tutte le direzioni, opponi alla fittizia ricchezza dei capitalisti, la ricchezza reale degli individui possessori di intelligenza energia".

Amo tutti gli uomini nella loro umanità e per ciò che essi dovrebbero essere, ma il disprezzo per quello che sono.

Inoltre ho ben diritto di uscire dal teatro quando la commedia mi diventa odiosa e anche di sbattere la porta uscendo, col rischio di turbare la tranquillità di coloro che ne sono soddisfatti.

domenica 15 dicembre 2019

PIAZZA FONTANA Cinquant’anni fa - L’ultimo viaggio di Giuseppe Pinelli

Arrivato in via Scaldasole, Pinelli trova Ardau. Ma non è solo. Ci sono anche tre poliziotti. Li guida il commissario della squadra politica, Luigi Calabresi. «Ah, bene, sei qui anche tu», dice Calabresi a Pinelli, «vieni in questura, puoi seguirci con il tuo motorino». Ardau viene fatto salire sulla macchina della polizia. Durante il percorso Calabresi dice ad Ardau: «C’è una sicura matrice anarchica negli attentati». Poi chiede notizie di «quel pazzo criminale di Valpreda». E aggiunge: «Voi due siete due bravi ragazzi,ma dovete riconoscere che tipi loschi come quel pazzo di Valpreda con il suo codazzo di ragazzini, con la loro esaltazione criminale ci costringono a prendere seri provvedimenti che si ritorcono anche contro di voi, perché ora non possiamo più tollerare ciò che in passato abbiamo fin troppo tollerato. Dovete rendervi conto che ci sono stati quattordici morti e non venite a raccontare, tu o altri, che sono stati i fascisti. Questa è roba da anarchici, non c’è ombra di dubbio. E voi dovete aiutarci a trovarli e fermarli prima che possano uccidere ancora».
Questo è quanto Ardau ricorda di quel colloquio. Intanto Pinelli li segue. È il suo penultimo viaggio. Quello definitivo sarà da una finestra del quarto piano della questura di Milano in via Fatebenefratelli.
L’ultimo interrogatorio di Pinelli si svolge nella stanza di Calabresi, che sostiene di essere uscito poco prima di mezzanotte per informare dell’andamento dei colloqui i suoi superiori. 
È la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell’«Unità», Aldo Palumbo, ha lasciato la sala stampa della questura. È nel cortile quando sente un tonfo seguito da altri due. Qualcosa che sbatte contro i cornicioni dei vari piani. Accorre, vede un uomo per terra nell’aiuola. Corre a chiamare agenti e colleghi. È mezzanotte? Manca ancora qualche minuto? È già iniziato il 16 dicembre? Altro quesito irrisolto. L’ora esatta della caduta di Pinelli diventerà un altro tormentone in questa storia tormentata. Dalla questura è partita una richiesta di  ambulanza prima che Pinelli cadesse o dopo? Mistero. Che pretende di risolvere Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza del «malore attivo», che manda tutti assolti, ma riabilita pienamente Pinelli. Scrive D’ambrosio: «Pinelli accende la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». Tutto qui. D’Ambrosio non tiene in considerazione le enormi contraddizioni in cui sono caduti i poliziotti. Secondo loro Pinelli si è gettato dalla finestra gridando: «È la fine dell’anarchia ». I poliziotti accorrono per fermarlo, scossi dal suo grido. Panessa afferma di essere riuscito ad afferrare Pinelli, rimanendo con una scarpa in mano. Ma i giornalisti accorsi vicino al moribondo lo vedono con tutte e due le scarpe ai piedi. 
Poco dopo l’una del 16 dicembre alcuni giornalisti bussano alla porta di casa dei Pinelli, la moglie viene informata che suo marito è caduto dalla finestra. Lei telefona a Calabresi: «Perché non mi avete avvertito?». Risposta del commissario: «Non avevamo il tempo, abbiamo molte altre cose da fare...». 
Nel frattempo Pinelli è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli. Lì è arrivata la giornalista Camilla Cederna con i colleghi Corrado Stajano e Giampaolo Pansa. Cederna riesce a parlare con il medico di turno, Nazzareno Fiorenzano: «Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco».


giovedì 12 dicembre 2019

PIAZZA FONTANA cinquant'anni fa - Dodici dicembre 1969

Dodici dicembre 1969, mancano tredici giorni a Natale. È quasi sera ma Milano è illuminata a giorno. I grandi magazzini sono sfavillanti. Le compere e gli acquisti. Le luminarie addobbano il centro. Migliaia di persone stipate in pochi metri tra corso Vittorio Emanuele, piazza Duomo e piazza San Babila vanno su e giù, osservano le vetrine. Ci sono gli zampognari e i venditori di caldarroste. Ai bar del Barba e Haiti servono espressi in continuazione, cinquanta lire a tazza. La gente transita nei pressi del Teatro alla Scala. Quella sera rappresentano “Il barbiere di Siviglia”. C’è ressa davanti al Rivoli per “Un uomo da marciapiede” e all’Excelsior per “Nell’anno del Signore”. Il freddo entra nelle ossa. Tutti noi italiani ci sentiamo felici, immortali, allegri, innocenti.
A un tratto un forte e dirompente boato rompe quella strana ubriacatura invernale. Giunge dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. Diciassette morti, ottantotto feriti.
Alle 16.37 siamo già vecchi. 
Un’altra bomba viene collocata nella sede della Banca Commerciale di Milano. Possiede le stesse caratteristiche della prima ma non scoppia. Altri ordigni vengono piazzati nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro a Roma. Tredici feriti. Bombe di elevata potenza colpiscono l’Altare della Patria e l’ingresso del Museo del Risorgimento a Roma. Quattro feriti. Gli inquirenti indirizzano le indagini verso gli anarchici. Ottanta fermati e arrestati.
Tra loro ci sono il ferroviere Giuseppe Pinelli e il ballerino Pietro Valpreda.
La notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, Pino Pinelli cade dal quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio.
Anni dopo i giudici scriveranno che Pinelli fu colpito da un malore attivo.
Valpreda viene rinchiuso in carcere fino al 1972. Innocente.
La pista anarchica viene suggerita e orchestrata dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno per depistare le inchieste.
Passano gli anni e la magistratura imbocca la pista giusta. Le valigette che contengono l’esplosivo del ’69 sono state acquistate da Franco Freda e Giovanni Ventura, fascisti di Padova.
Emerge un piano che deve sfociare in un tentativo di colpo di Stato militare.
(Tratto dalla prefazione “Attentato Imminente” di Daniele Bianchessi)


QANA Patty Smith

Non c’è nessuno
nel villaggio
né un essere umano
né una pietra
non c’è nessuno
nel villaggio
i bambini sono partiti
e una madre si dondola
per addormentarsi
fate crollare tutto
fatela piangere 

i morti giacevano in strane forme

Alcuni sono sepolti
altri strisciano all’aperto
non le ha fatte un bambino
le macerie urlanti
e una madre si dondola
per addormentarsi
fate crollare tutto
fatela piangere

i morti giacevano in strane forme

Bamboline afflosciate
incrostate nel fango
piccole, piccole mani
trovate nella strada
e le loro chiacchiere
bersagli di guerra
che bella frase
bombe che cadono
gli americani hanno creato
il nuovo Medio Oriente
e quella lì, la Rice, starnazza

i morti giacevano in strane forme

piccoli corpi
piccoli corpi
legati mani e piedi
avvolti nella plastica
disposti per strada
il nuovo Medio Oriente
quella lì, la Rice, starnazza

i morti giacevano in strane forme

Acqua in vino
vino in sangue
ah, Qana,
il miracolo
è l’amore.
29 luglio 2006 
BEIRUT - E' strage di bambini a Cana, nel sud del Libano. L'attacco aereo israeliano sul villaggio, è arrivato nella notte. Una pioggia di bombe ad alta precisione: obiettivo un edificio di tre piani che è venuto giù come un castello di carte. Dentro si erano rifugiate da giorni molte famiglie spaventate dal conflitto. Sotto le macerie, una sessantina di cadaveri, 37 sono bambini (quindici di loro erano disabili). E' la strage che segnerà per sempre questa data e questa guerra. Per tutta la giornata il mondo è stato colpito e travolto dalle immagini dei soccorritori che scavavano tra le macerie e sollevavano corpi di bambini e bambine, li portavano via a braccia, li mostravano urlando e chiedendosi perché. 

Un'economia municipalizzata è un'economia morale

Qualsiasi movimento rivoluzionario comunista libertario deve, a mio avviso, riconoscere l'importanza della municipalità come il Locus di nuovi problemi che riguardano più classi e che non possono essere ridotti semplicemente alla lotta tra lavoro salariato è capitale. I problemi del degrado ambientale riguardano tutti i membri della comunità; così come i problemi delle ingiustizie sociali ed economiche; i problemi di salute, istruzione, condizioni sanitarie e l'incubo della crescita insensata. Il capitalismo e un sistema espansivo compulsivo la moderna economia di mercato impone che le imprese debbano "crescere o morire" nulla impedisce al capitalismo di industrializzare tutto il pianeta espandendosi sempre di più ogni volta che è pronto a farlo. Solo la completa ricostruzione della società e dell'economia può porre fine ai dilemmi sollevati dalla globalizzazione: lo sfruttamento dei Lavoratori e l'aumento del potere delle aziende fino al punto di minacciare la sopravvivenza di gran parte del nostro pianeta. Solo una politica economica di base -  fondata su un progetto e un movimento municipalista libertario - può offrire un'alternativa importante ed è proprio una alternativa in grado di arrestare l'impatto della globalizzazione, ciò che molte persone cercano oggi.
il capitale globale a causa della sua enormità può essere sradicato solo con un movimento municipalista libertario al centro della società. Deve essere eroso dalle moltitudini che mobilitate da un movimento di base, sfidino la sovranità del capitale globale sulle loro vite e cerchino di sviluppare alternative economiche locali e regionali alle sue operazioni industriali
Un'economia municipalizzata - lenta come può essere nel suo divenire -  è un'economia morale che privilegia la qualità dei suoi prodotti e la loro produzione a basso costo;  può In definitiva sperare di sovvertire un economia d'azienda in cui il successo è  misurato interamente dai profitti piuttosto che dalla qualità dei prodotti.
La società capitalista ha conseguenze non solo sulle relazioni economiche e sociali, ma anche sulle idee e le tradizioni intellettuali come sulla storia, Le frammenta fino a quando le conoscenze e perfino la realtà si confondono, spogliate di qualsiasi distinzione, specificità e articolazione. 
Il municipalismo libertario deve essere concepito come un processo, una pratica paziente che inizialmente avrà un successo limitato e anche allora solo in aree selezionate che forniranno esempi delle possibilità che si potrebbero  ottenere se adottate su larga scala non cresceremo una solita municipalista libertaria dall'oggi al domani. Pazienza,  costanza e impegno sono qualità che i nostri vecchi  Compagni rivoluzionari hanno  coltivato assiduamente.  

giovedì 5 dicembre 2019

PIAZZA FONTANA cinquant'anni fa - Il colpo di stato

Dopo la strage, nei piani degli alti strateghi era previsto che i funerali delle vittime degenerassero in una giornata di scontri e violenze, scatenando provocatori e bande fasciste e innescando episodi di guerriglia urbana. Radio e televisione avrebbero poi opportunamente ripreso e amplificato gli efferati eventi, così da suscitare quell'invocazione di autorità e ordine che avrebbe legittimato la svolta autoritaria. 
L'ispirazione veniva dagli scontri e dagli atti di violenza già sperimentati su scala minore dai gruppi della destra estrema il mese precedente, il giorno dei funerali a Milano dell'agente Annarumma. 
La mattina del 15 dicembre i funerali delle vittime si svolgono in una piazza del Duomo che fin dalle prime ore del mattino è presidiata da centinaia di operai ed è gremita da una folla vigile anche nelle strade adiacenti. In una giornata fredda e cupa, quattordici bare sfilano tra le immense ali di una folla attenta, tesa, in un silenzio impressionante e composto, quasi minaccioso — allora non si applaudivano i morti. Quelle migliaia di donne e uomini che secondo i piani sarebbero dovute restare chiuse in casa tremanti di paura sono tutte lì, nessuno le ha convocate, non c'è un cartello, un manifesto, ciascuno è venuto di sua iniziativa ed è come se una coscienza collettiva avesse avvertito il pericolo e si fosse stretta alle vittime, per dimostrare che esiste una risposta democratica che non ha paura, che ha colto il messaggio provocatorio della strage e che non intende accettare soprusi. Non è retorica affermare che fu quella folla imponente e muta, quel popolo democratico, che salvò quel giorno questo paese, quando già era sulla soglia del baratro. 
Secondo una versione ormai accreditata vi erano, tra i fautori del colpo di stato appoggiato dagli Usa, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (Psdi) e gli uomini a lui vicini, la destra democristiana dell'allora presidente del Consiglio Mariano Rumor e tutte le componenti più o meno dichiaratamente  fasciste, altri erano più possibilisti mentre era contraria la corrente Dc dell'on. Moro, che fin dai tempi del suo primo governo con i socialisti, nel 1963, perseguiva un'ipotesi di centro-sinistra. L'ala dura era la più consistente e si riteneva in grado di imporre le proprie scelte. Ma fu di fronte a quel silenzio agghiacciante, a quella inattesa dimostrazione di coesione e fermezza da parte della popolazione milanese nel giorno dei funerali, accompagnata anche da una esplicita esibizione di forza da parte dei servizi
d'ordine e dei presidi che quel giorno partiti, sindacati e movimenti di sinistra avevano predisposto — il golpe era nell'aria — che venne a più miti consigli la componente golpista. Fu lo stesso Presidente del Consiglio Mariano Rumor, che a Milano assistette ai funerali, a rimanere turbato e intimorito dalla forza di quella manifestazione che si dissociò dal piano, non consentendo al presidente Saragat di dichiarare lo stato di crisi, sciogliere le camere e mettere in atto il progettato "golpe istituzionale". Si tenga anche presente che il quotidiano inglese «The  Observer», di fatto portavoce del governo di Sua Maestà, aveva pubblicato già il 7 dicembre un documento che attestava intese tra i colonnelli greci ed esponenti politici e militari italiani e il 17 dicembre, quattro giorni dopo la strage, indirizzerà esplicitamente le sue accuse alla destra e ai servizi, con un editoriale che denunciava il piano eversivo come una "strategy of tension", impiegando per la prima volta quella definizione destinata a entrare nella storia. Il documento, palesemente opera dell'intelligent britannica dimostra una spaccatura strategica sull'Italia tra i servizi segreti americani e quelli inglesi. 
Lo stesso 17 dicembre il SID, il servizio segreto militare, aveva ricevuto dal suo raggruppamento di Roma un comunicato in cui si indirizzavano esplicitamente i sospetti verso un'agenzia d'oltralpe chiamata "Aginter Presse", organizzazione fascista guidata da tale Yves Guérin Sérac (al secolo Yves Guillou). Quel documento, che avrebbe potuto allora cambiare il corso degli eventi, sarà nascosto alla magistratura che ne verrà a conoscenza solo nel marzo 1973.
(Tratto da Pinelli la finestra è ancora aperta Gabriele Fuga - Enrico Maltini)

LA CALIFFA di Alberto Bevilacqua

La "Califfa" nomignolo che in Emilia viene attribuito alla donna autoritaria e spregiudicata. 
Doberdò è uno scaltro e maturo industriale, un "self-made-man" che si è costruito un piccolo impero economico in una cittadina della provincia emiliana. Per solidarietà con gli operai licenziati da un'altra impresa fallita, le maestranze di Doberdò occupano gli stabilimenti. Nel fronteggiare la situazione, il padrone si mostra fermo, ma anche disponibile al dialogo; e quando una delle sue dipendenti, la bella e focosa Irene, detta "la Califfa", con un gesto volgare gli esprime pubblicamente il proprio disprezzo, egli si mostra magnanimo per indurre gli operai incerti tra le direttive dei capi sindacali e gli incitamenti alla violenza di estremisti facinorosi a riprendere il lavoro. Irene è una donna indipendente e spregiudicata, rimasta vedova quando le hanno ucciso il marito durante una dimostrazione, e risoluta a combattere l'odiato padrone. Si lascia tuttavia, a poco a poco, ammorbidire e conquistare da Doberdò, negli incontri che i due hanno in fabbrica e poi anche nella villa dell'industriate. Irene diventa l'amante di Doberdò e induce gli operai ad ascoltare le proposte di rinnovamento e di partecipazione avanzate dall'industriale. I disordini, però, continuano; anche perché il progressismo dell'industriale non è ben visto dai suoi colleghi, che minacciano di esautorarlo dalla direzione della loro associazione. Così mentre da un lato Doberdò ritrova nell'amore per Irene la vitalità che aveva perduto nel monotono "ménage" con una moglie banale e un figlio capellone, dall'altro cerca di non farsi sfuggire di mano la situazione in fabbrica. Ma mentre, all'alba, rientra da un ennesimo incontro con l'amante, è assalito e ucciso da sicari, che ne abbandonano il corpo nei pressi della fabbrica. Ancora una volta Irene ha perduto così il suo amore.
La Califfa, o dell'ambiguità, è l'opera prima cinematografica dello scrittore Alberto Bevilacqua. Girato appena dopo l'autunno caldo è il primo film a soggetto direttamente collegabile a quei mesi drammatici, tratto dal suo terzo libro, edito nel 1964, è ambientato a Parma, città natale di Bevilacqua.
Il linguaggio di Bevilacqua è rapido e asciutto. Probabilmente l’esperienza cinematografica gioverà al narratore, abbreviando la distanza dalle cose. Né gli attori lasciano a desiderare: Ugo Tognazzi è un perfetto imprenditore figlio di contadini che, grazie all’amore, passa dal pragmatismo alla sfida romantica nei confronti del potere. Romy Schneider è di una bellezza sconvolgente, fotografata in stupendi primi piani, tra le cariche della polizia e il sangue che scorre. Un personaggio adatto alle sue caratteristiche femminili, una donna forte e innamorata, disposta a mettersi in gioco. Bevilacqua racconta la società italiana di fine anni Sessanta con gli imprenditori d’assalto, le fabbriche che chiudono, gli operai che occupano e chiedono rispetto per il lavoro. Vediamo le cariche della polizia, gli imprenditori suicidi dopo il fallimento, le proteste di piazza. Il quadro sociale è accompagnato da un’analisi spietata dei rapporti borghesi tra moglie e marito, la passione che si stempera, il tradimento, ma pure il contrasto generazionale padre – figlio non sfugge alla critica. L’operaia ribelle e l’imprenditore hanno in comune il coraggio, le origini umili, la voglia di credere in un progetto e l’illusione di cambiare il mondo. Ma sarà la cruda realtà a vincere sui loro sogni.
La politica di avvicinamento di Doberdò verso i lavoratori gli procura prima l'irritazione e poi l'odio dell'Unione degli Industriali della Regione i quali ammoniscono l'ormai ex amico a desistere dalle sue iniziative. Doberdò non accetta imposizioni e in tal modo firma la sua condanna: viene preso a fucilate e trascinato a morire dinanzi alla sua fabbrica. Gli operai nel film sono mostrati come una sparuta e odiosa minoranza di teppisti, violenti, pronti magari ad uccidere, ma poi, vista la fine di Doberdò ucciso dagli industriali, sono allora proprio queste facce patibolari ad avere ragione, a non voler credere e accettare le «isole» di democrazia, a voler generalizzare la lotta, a voler continuare lo sciopero anche se hanno ottenuto la cogestione, infatti Doberdò è stato eliminato dagli industriali retrivi non perché questi non sono ancora maturi al salto di qualità, ma perché egli ha condotto la sua lotta da solo, dall'alto, paternalisticamente, svincolato da una ideologia comune con gli operai, da una vera coscienza proletaria e rivoluzionaria.

MESSAGGIO DEGLI IROCHESI AL MONDO OCCIDENTALE

Gli  Hau de no sau nee o Confederazione Irochese delle Sei Nazioni sono su questa Terra dall'inizio della memoria umana. La nostra cultura è tra le più antiche che ancora esistono al mondo. Noi ricordiamo ancora i primi atti del comportamento umano. Noi ricordiamo le istruzioni originarie del Creatori della vita a questo luogo che noi chiamiamo Madre Terra. Noi siamo i guardiani spirituali di questo luogo. Noi siamo il vero popolo. Al principio c'è stato detto che gli esseri umani che camminano sulla terra sono stati dotati di tutto ciò che loro necessario per vivere. Abbiamo imparato ad amarci gli uni con gli altri, ad avere un grande rispetto per tutti gli esseri della terra.
Ci è stato mostrato che la nostra vita esiste grazie alla vita degli alberi, che il nostro benessere dipende dalla vita vegetale, che noi siamo parenti più prossimi degli esseri a quattro zampe. 
Secondo noi la coscienza spirituale è la forma più compiuta della politica. La nostra politica è un modo di vita. Noi pensiamo che tutto ciò che vive sia dovuto ad esseri spirituali. Gli spiriti possono esprimersi sotto forma di energia tradotta in materia. Un filo d'erba è una forma di energia espressa in materia: - la materia erba -.
Tutte le cose del mondo - L' Universo spirituale -, si manifesta all'uomo sotto la forma della Creazione, la Creazione che sorregge la vita.
Noi pensiamo che l'uomo sia un essere reale, una parte della creazione, e che suo dovere sia di mantenere la vita in unione con gli altri esseri. E' per questo che noi ci chiamiamo Ongwhehon-whe - il vero Popolo -  Le istruzione originarie ci raccomandano per noi che camminiamo sulla terra, di avere un grande rispetto, una grande affezione e gratitudine verso tutti gli spiriti che mantengono la vita.