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giovedì 30 settembre 2021

PIOTR KROPOTKIN – parte prima

Piotr Kropotkin appartiene a principesca famiglia russa, discendente in linea retta dagli antichi principi feudatari della casa reale di Rurigo. Nella sua qualità di nobile imparentato colla Corte, fu ammesso agli studi nell'imperial collegio, detto dei Paggi, ove terminò il suo corso nel 1861. Avrebbe potuto allora entrare alla Corte degli Czar, e percorrere ivi, negli agi e nelle facili soddisfazioni della superba vita cortigiana, una splendida carriera. Ma lo studioso vinse in lui l'aristocratico. Ed eccolo, appena terminati i suoi studi giovanili, partir per la gelida Siberia a compiere nuovi studi di geologia, servendo anche come ufficiale, in un reggimento di cosacchi. Trascorse colà vari anni, prendendo parte a diverse spedizioni scientifiche, e acquistando profonde e vaste cognizioni che poi gli furono utili ne' suoi lavori di collaborazione col compagno, l'insigne geografo Eliseo Réclus. Tornato a Pietroburgo, Pietro Kropotkin fu subito nominato membro e segretario della Società Geografica Russa, e in tale qualità compì molti lavori scientifici rinomatissimi, e diede principio alla sua opera colossale sui ghiacciai della Finlandia, opera che doveva poi terminare in prigione, nella fortezza dei Santi Pietro e Paolo. Scoppiata l'insurrezione della Polonia, Kropotkin indignato del contegno barbaro del governo russo, diede le dimissioni da ufficiale dell'esercito. Nell'anno 1872 Kropotkin viaggiò, nel Belgio e nella Svizzera. Era appunto l'epoca in cui, specialmente in quest'ultimo paese, l'Internazionale faceva parlare di sè. Era avvenuta la celebre scissione fra Marx e Bakounine al Congresso dell'Aia, dopo che al Congresso di Berna gli anarchici avevano tracciate le linee generali del loro programma e della loro tattica, che respingeva ogni partecipazione all'azione politica che consolidasse la forma di Stato, cioè al Parlamentarismo. La Federazione Giurassiana era nel suo pieno vigore. Kropotkin, che già professava idee liberali ed avanzate, si trovò facilmente preso in quel movimento grandioso d'uomini e d'idee, e nel suo spirito aperto e scevro di preconcetti non tardò a farsi strada la concezione anarchica ch'egli accettò risolutamente, e alla cui propaganda si consacrò senza riserve. Infatti rientrato in Russia, eccolo partecipare a quel movimento rivoluzionario e far parte del gruppo dei «Ciakovzki», il più affine alle sue idee. Fu anzi incaricato di scrivere il programma di questo partito e della sua organizzazione. Non potendo resistere alla febbre dell'agitazione e della propaganda rivoluzionaria, eccolo fin da quell'anno istesso, 1872, nascondere il suo vero essere sotto le vesti d'operaio, partecipare alla vita dei lavoratori del distretto di Alessandro Newsky, e tenere una serie di conferenze clandestine in forma popolare, per sviluppare nella massa incosciente l'idea del socialismo libertario. Si faceva chiamare «Boradin» ed era così diventato lo spettro rosso della polizia russa, la quale dappertutto lo andava cercando, senza riuscire a mettergli le mani addosso. Finalmente l'anno seguente, 1873, per la delazione di un operaio vendutosi alla polizia, fu arrestato... E quale fu mai la sorpresa amara del governo, della polizia, e principalmente della Corte, quando si seppe che il temuto agitatore rivoluzionario «Boradin» non era che l'illustre scienziato, l'ex ufficiale, il principe Kropotkin, discendente di sangue reale e imparentato colla Corte stessa? 


Alex Trocchi e L’internazionale situazionista

Anche da altri eccessi di quell’epoca, comunque, Alexander Trocchi si lasciò segnare quasi come da stigmate, perseguendoli come si può perseguire la necessità di un segno. A Parigi elaborò al fianco di Guy Debord e Jacqueline de Jong le tesi rivoluzionarie e i primi manifesti di quella che sarebbe presto diventata l’Internazionale Situazionista. Nelle riunioni semiclandestine sulla riva sinistra della Senna veniva predisposta la technique du coupe du monde, una presa non cruenta del potere planetario attraverso la lenta infiltrazione nei mezzi di produzione culturale di massa. Per anni ancora, ben oltre la plausibilità dei suoi piani, Trocchi portò in dibattiti e pubblicazioni sui due continenti il suo Sigma Project, quella che sul numero della rivista dell’Internazionale Situazionista uscito nel gennaio 1963 lui prospettava come l’insurrezione invisibile di un milione di menti. «Il colpo di stato mondiale deve essere culturale nel più vasto senso del termine. Con i suoi mille tecnici, Trotzky occupò i viadotti e i ponti e gli snodi telefonici e le centrali elettriche. La polizia, vittima delle convenzioni, contribuì alla sua brillante impresa montando la guardia ai vecchi chiusi nel Cremlino. Loro stessi non avevano avuto la necessaria elasticità mentale per cogliere che la loro presenza nelle tradizionali sedi del governo era irrilevante. La Storia li aveva aggirati. Trotzky aveva le stazioni ferroviarie e le centrali elettriche, e all’atto pratico il “governo” veniva chiuso fuori dalla Storia da parte delle sue stesse guardie. Così l’insurrezione culturale deve impossessarsi delle reti della comunicazione e delle centrali della mente». Per la presa dei mezzi di produzione culturali i tecnici silenziosi avrebbero dovuto essere un milione, e il nome del progetto, il sigma simbolo algebrico della somma, voleva forse contenere anche l’enorme forza dell’unione. La rivoluzione culturale si sarebbe contemporaneamente impadronita delle università, ne avrebbe ridisegnato la funzione e i metodi. «Le burocrazie delle università si mescolano con la burocrazia di stato, vi si specchiano in piccolo. Le università sono divenute fabbriche per la produzione di funzionari qualificati. Il sistema competitivo incoraggia le tattiche diligenti, ben oliate, quelle più plausibili. È certamente una sofferenza e forse perfino un pericolo per uno studente interessarsi profondamente alla sua materia, o dovrà sempre essere pronto a dimostrare le sue competenze; gli studenti nelle nostre università sono talmente occupati a esercitarsi nell’apparenza che si incontra raramente qualcuno che si preoccupi della realtà. L’intero sistema è un esiziale anacronismo. L’Università Spontanea — un luogo dove inventare efficaci moduli comportamentali, dove gli allievi possano imparare come dovremo essere se dovremo essere e fare insieme. La secessione unanime delle menti più vitali è la sola risposta. Il basilare cambiamento di condotta descritto finora deve accadere. STA ACCADENDO. Il nostro problema è rendere gli uomini consci di questo fatto, e ispirarli a partecipare. L’uomo deve prendere il controllo del suo futuro: solo così potrà mai sperare di ereditare la Terra». A metà degli anni Cinquanta, Alexander Trocchi condivideva questi discorsi con Jacqueline de Jong, Asgern Jorn e soprattutto Guy Debord, per il quale quegli anni e discorsi possono verosimilmente appartenere all’incubazione del più importante saggio sui mass media del Novecento, La Société du Spectacle, la cui copertina originale era in carta vetrata, per eliminare anche fisicamente qualsiasi libro del passato gli fosse stato messo accanto. In una lettera da Parigi datata 21 settembre 1957, quando da oltre un anno Trocchi viveva negli Stati Uniti, Guy Debord lo saluta così: “Comunque, qui ci divertiamo. Conto sempre su di te per due o tre piccole rivoluzioni in cantiere. A presto.” Per un po' di tempo, Alexander Trocchi fu un intimo amico di Guy Debord, sia dal punto di vista intellettuale che personale. Debord era rimasto completamente affascinato dall'idea di Trocchi, de "l'insurrezione invisibile di un milione di menti, di un grande esercito in uno stato di incubazione, anche se latente, e pronto ad attaccare, per perfezionare l'assalto finale alla società di classe." Tutto ciò coincideva con le idee di sovversione totale della vita e dell'arte sostenute da l'Internazionale Situazionista, idee che dovevano già trovarsi (in una forma o nell'altra) nella mente del proletariato europeo, ma che dovevano essere rese visibili. Per Trocchi, la violenza degli studenti, dei neri dei ghetti americani, dei teddy boys, era la "diretta conseguenza dell'alienazione dell'uomo nei confronti del suo stesso proprio essere, come conseguenza della rivoluzione industriale", dal momento che "l'uomo ha dimenticato come si gioca".



UN PUNTO di vista anarchico

NON IL, ma un, punto di vista anarchico. Quindi contiene le caratteristiche tipiche della visuale anarchica che, pur essendo parziale, relativa e non assoluta, come tutte le visuali che non si limitino ad uno specifico campo d’azione, rappresenta una chiave di lettura capace di abbracciare valori universali, proposti con la consapevolezza di una validità estensibile a tutti ed a tutte le situazioni. Ed il punto di vista anarchico principe presuppone sopra ogni altra cosa il rifiuto incondizionato di ogni genere di sopraffazione di potere e di ogni forma di dominio, in nome del riconoscimento di fatto di un’eguaglianza sociale diffusa, di pratiche costanti di libertà e del ripudio di qualsiasi esercizio della violenza nell’espletamento delle decisioni e della volontà collettive, rese operanti attraverso strutture orizzontali, non gerarchiche e non rigide. Qual è il problema di fondo rispetto all’auspicabile possibilità della realizzazione di una futura società anarchica? Corrisponde al superamento e all’abbattimento delle barriere storicamente consolidate, strutturali senza dubbio, ma soprattutto culturali, che mantengono in piedi la stabilità degli assetti di potere del vigente dominio. L’istituzionalizzazione del potere in atto, infatti, che legittima la necessità del comando gerarchico e della sua esecuzione attraverso l’uso della forza costituita, ha in sostanza due tipi di giustificazione: la prima, la più antica ed ancestrale è di tipo religioso, secondo la cui credenza dio o più dei, dal momento che non si fidano dell’imperfezione umana da essi stessi creata, dall’alto del loro potere superumano obbligano l’umanità ad obbedire ad alcuni uomini scelti da loro per eseguire la volontà divina, rivelata e in genere sancita da sacre scritture; l’altra, di carattere laico, è l’homo homini lupus hobbessiano, secondo cui, dal momento che fin dalle origini dello stato di natura ogni uomo è ostile agli altri uomini, per poter vivere in sicurezza e in armonia la società ha necessità di trovare chi la comanda, capace d’imporre con la forza quell’ordine indispensabile al vivere comune, che per una diffusa convinzione altrimenti verrebbe meno. Il compito degli anarchici allora è quello di proporsi e di agire per dimostrare e convincere che le motivazioni storicamente determinatesi, della volontà di dio e della necessità del comando dall’alto, altro non sono che semplici credenze umane, imposte e legittimate nel tempo dalla volontà dei potenti di turno. Non solo sono eludibili, ma perfettamente sostituibili con una visione fondata su principi di libertà, su una conduzione delle cose collettive non governata dall’alto, sulla possibilità di organizzarsi senza gerarchie di comando e con forme di gestione orizzontale. Possiamo benissimo non essere governati, ma autogovernarci, sostituendo il potere della forza d’imposizione con la reciprocità, la solidarietà e un’effettiva partecipazione alle decisioni, che non avranno perciò più la necessità di essere imposte con la forza e la legittimità giuridica di corpi armati addetti alla sicurezza ed all’ordine pubblico, cioè da esecutori della volontà di istituzioni autoritarie.


giovedì 23 settembre 2021

1848 il pensiero libertario francese parte seconda

Agli inizi del Novecento, in Francia, molti modernisti, inclusi Picasso, Kupka, Vlaminck e molti altri, consideravano il pensiero anarchico inerente all’idea di avanguardia artistica e crearono un nuovo linguaggio formale, espressione di un desiderio di cambiamento rivoluzionario nell’arte come nella società. Inoltre, molti degli artisti che aderirono a correnti come quella del cubismo, avevano lavorato come disegnatori per la stampa umoristica parigina di critica radicale. Benché ciò sia noto da tempo, gli storici dell’arte hanno sempre esitato a collegare queste due soluzioni. Nonostante per molti pittori il fatto di disegnare vignette fosse più un incarico remunerato che una azione propagandistica, vi sono anche figure impegnate su entrambi i frangenti, come Juan Gris, pittore aderente al cubismo ma al tempo stesso impegnato nell’espressione delle sue idee nelle vignette in prevalenza monocromatiche che hanno popolato riviste illustrate come quella su cui si concentra questa tesi, per esempio “L’Assiette au Beurre”. Gris odiava la società capitalista e decise di combatterla con una dinamite fatta dell’acidità dei suoi disegni e con la violenza nelle sue didascalie. Entrò in contatto con l’anarchismo in virtù del suo antimilitarismo e della sua vena anticlericale e collaborò con scrittori anarchici come Charles Malato nella realizzazione della rivista sopra citata, punto di par-tenza di questo studio. Infatti, dopo una prima parte di ricostruzione storica delle produzioni letterarie dei personaggi che hanno fondato l’anarchismo francese – come Proudhon, Bellegarigue, Dejacque, Coeurderoy – e un’analisi sull’avvento del giornalismo libertario unito alla dottrina mutualista sviluppata durante l’Internazionale (con accenni anche al periodo della “propaganda col fatto”e alla Comune di Parigi), ci si è concentrati sull’espressione comunicativa presente in alcune riviste dell’epoca. In particolare si sono presi in esame periodici come “Les Temps Nouveau”, diretto da Jean Grave, “Le père Peinard”, “La guerre social”, “La Voix du peuple” e tantissimi altri fino ad arrivare alle riviste illustrate, per la maggior parte umoristiche, di cui Parigi era colma, come “Le Rire”, “Le journal pour tous”, “Le Figaro illustré”, solo per citarne alcune, e soprattutto “L’Assiette au Beurre”. Quest’ultima fu un punto di incontro tra anarchismo e modernità, proponendo una grande quantità di approcci diversi dell’anarchismo, da quello innocuo e fatto apposta per divertire al criticismo selvaggio, sfiorando il fiero individualismo che perveniva dagli artisti stessi. Edito da Samuel Schwarz e André de Joncières, fu pensato e realizzato su uno schema fisso, pagine intere con un solo disegno e una didascalia ironica sotto ogni disegno, ogni numero su un tema e disegnato da uno o più artisti supportati da scrittori. La colonna portante delle riviste satiriche era costituita infatti da un folto numero di umoristi di professione, ciascuno con una propria specializzazione:il clero, l’ambiente militare, la società, i personaggi politici, i quartieri poveri o la vita in campagna. Le motivazioni politiche di questi lavori sono state trascurate per le stesse ragioni per cui questi lavori sono stati ignorati: le preoccupazioni mondane non si adattavano alle concezioni proprie a un’arte di alto impegno. Al contrario queste litografie comunicavano con libertà espressiva, attraverso la semplificazione, la deformazione violenta e la composizione non letteraria connessa con le pitture. È anche vero che il fumetto forse offriva un modo all’artista per formare la sua identità di pittore “declassato” che però sapeva raggiungere differenti varietà di pubblico grazie al fatto di poter godere di una grande libertà di espressione. Ci sono studiosi che considerano “L’Assiette au Beurre” come un’operazione più commerciale che militante, una testata che “malgrado il suo carattere aggressivo, mantiene per lo più una posizione compiacente, che ‘segue la corrente’”. Al di là delle diverse opinioni, tutto ciò rimane uno spunto interessante per l’analisi del rapporto tra disegno umoristico, cubista e caricaturale che sempre veicolano la volontà dell’osservatore di riconoscere il soggetto e di percepirlo in una realtà che lo circonda. Secondo vari studiosi, inoltre, l’arte della caricatura fu quasi un modello su cui si plasmò il linguaggio dei segni che rende leggibili i quadri cubisti e i disegni. Tecniche “basse” per creare un’arte “alta”, impegnata, che ha la quasi stessa valenza del manifesto attuale. Tutto ciò risulta significativo poiché permette di ribadire l’importanza che la stampa e la comunicazione hanno esercitato all’interno del movimento stesso anche in rapporto alla società e alla cultura della Francia di fine secolo. In particolare, è interessante rilevare come l’idea anarchica fosse tenuta in considerazione dalle cosiddette avanguardie artistiche in quanto veicolo ed espressione di un principio inalienabile: la libertà dell’essere umano.



Alexander Trocchi intellettuale anticonformista

Alexander Trocchi è uno degli autori più importanti della letteratura scozzese degli ultimi settant’anni, eppure in Italia è ancora sconosciuto (anche se oggetto di un piccolo culto). Intellettuale anticonformista e vivace, Trocchi ha avuto una vita tumultuosa, e la forza delle sue opere sta anche nell’inestricabilità tra vissuto e scrittura. Nato a Glasgow il 30 luglio del 1925, nipote di emigrati italiani, perse la madre quando aveva sedici anni, un lutto che lo segnò a vita e che riecheggia nei suoi libri. Studiò lettere e filosofia, con una pausa durante la quale si arruolò come pilota, nonostante il credo pacifista. Nel 1947, a 22 anni, sposò segretamente Betty, della quale era innamorato dai tempi della scuola, e con lei ebbe una figlia, Jacqueline. Cominciò a scrivere racconti. Nel 1950, grazie a una borsa di studio, visitò l’Italia, la Grecia e la Turchia, e infine si trasferì a Parigi con la famiglia; qui nacque la secondogenita, Margot. Dopo un periodo a Newcastle, affinché Betty potesse accudire il padre malato, Trocchi tornò da solo a Parigi. Conobbe l’americana Alice Jane Lougee, che contribuì economicamente alla nascita della rivista letteraria in lingua inglese Merlin, di cui Trocchi fu coeditore insieme al poeta Christopher Logue. La rivista, che ospitò tra gli altri Ionesco, Miller, Neruda, Beckett e Sartre, resistette due anni (1952-1954), per un totale di sette numeri. Nel 1953 Maurice Girodias fondò Olympia Press e, in dialogo con Merlin, diede alle stampe testi proibiti come Lolita di Nabokov, Plexus di Miller, Storia dell’occhio di Bataille o La filosofia del boudoir di De Sade. Fu in questo contesto che, nel 1954, Trocchi pubblicò il suo primo romanzo, Giovane Adamo, mentre ancora scriveva racconti pornografici per conto di Girodias (ricorrendo a pseudonimi come Jean Blanche o Carmencita de las Lunas). Nel 1956 si trasferì quindi a New York, dove andò a vivere su una chiatta e cominciò a far uso di eroina, tutte esperienze che convergeranno ne Il libro di Caino. Dopo aver divorziato da Betty, Trocchi sposò Marilyn Rose Hicks, con la quale si trasferì a Los Angeles e poi a Las Vegas, dove Lyn si prostituì per procurare la droga a entrambi. Nel frattempo Trocchi aveva conosciuto i rappresentanti della beat generation, Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Gregory Corso. Nel 1960 uscì Il libro di Caino, che fu un best-seller, ma da quel momento in poi Trocchi pubblicò soltanto racconti e poesie: il terzo romanzo, intitolato The Long Book, gli avrebbe richiesto ancora anni di lavoro e non sarebbe mai stato portato a termine. Il picco della popolarità Trocchi non lo raggiunse con un romanzo, bensì per essersi iniettato dell’eroina in diretta televisiva all’interno di un programma sull’abuso di droga, nel 1961, poco tempo dopo essere stato arrestato per spaccio di droga a minori e rilasciato su cauzione. A quel punto, abbandonata Lyn in cella, Trocchi intraprese una fuga che lo portò a Montreal, dove incontrò Leonard Cohen, e poi in patria. Il libro di Caino uscì in Gran Bretagna soltanto nel 1963, e fu condannato per oscenità dalla Corte di Sheffield, che ne ordinò il ritiro dal mercato. A partire dal 1964, supportato da Guy Debord, Trocchi lavorò al Sigma Project, un manifesto di ispirazione situazionista che non diede mai i frutti sperati. Nel ’66 fu pubblicata una nuova versione di Giovane Adamo, epurata dalle scene pornografiche volute da Girodias, ma quando nel ’67 nacque il secondogenito Nicolas Adam, Trocchi accantonò la scrittura e cominciò a gestire un negozio di libri usati a Londra. Dopo la morte di Lyn per epatite, nel 1972, e quella di Mark per cancro, cinque anni dopo, Trocchi intraprese una relazione con Sally Child (oggi detentrice di parte dei diritti sulle opere). Malato di cancro ai polmoni, si spense il 15 aprile 1984 nella miseria più assoluta; aveva cinquantanove anni. Pochi mesi dopo il figlio Nicolas si suicidò, a soli 17 anni. Oggi Trocchi è ricordato per due cose: per essersi bucato in diretta televisiva, e perché ne Il libro di Caino, definì per la prima volta «il termine Cool nella sua accezione destinata a divenire popolare, e riferita in origine alla sensazione di benessere che ha l’organismo sotto eroina». 



L’anarchismo che cambia è l’anarchismo che lotta

Lottare non è più soltanto denunciare, opporsi e affrontarsi, è anche creare qui e ora realtà differenti. Le lotte devono produrre risultati concreti senza lasciarsi condizionare dalle speranze per il futuro. Si tratta dunque di strappare spazi al sistema per svilupparvi esperienze comunitarie dal carattere trasformatore, perché è soltanto quando un’attività trasforma realmente e radicalmente una realtà, anche se in modo provvisorio e parziale, che si gettano le basi per andare al di là di una semplice (benché sempre necessaria) opposizione al sistema e per creare un’alternativa concreta che lo sfidi nei fatti. In questa prospettiva, buona parte del neoanarchismo si sforza di creare spazi di vita e modi di essere che si pongano in radicale rottura con le norme del sistema e che facciano nascere nuove soggettività radicalmente ribelli. Come dice un collettivo anarchico degli Stati Uniti: La nostra rivoluzione deve essere immediata e riguardare la vita quotidiana, dobbiamo cercare da principio e prima di tutto di modificare il contenuto della nostra esistenza in senso rivoluzionario, più che orientare la nostra lotta verso un cambiamento storico e universale, che non potremo mai vedere nel corso della nostra vita. Si tratta dunque di agire su un ambiente che noi trasformiamo e che, al tempo stesso, ci permette di trasformare noi stessi modificando la nostra soggettività. Possiamo realizzare tutto ciò creando legami sociali differenti, costruendo complicità e relazioni solidali, che prospettino nella pratica e nel presente una realtà diversa e una vita differente. Come sostiene la rivista francese «Tiqqun», si tratta di stabilire modi di vita che siano di per sé modi di lotta. Tutto ciò non è del tutto nuovo, naturalmente, e lo si può far risalire, con qualche distinguo, ai luoghi di vita creati dagli anarchici della fine del XIX secolo e inizio del XX. Allora, per sintetizzare, quello che emerge è che le lotte attuali non si articolano su basi identitarie, criticano i discorsi totalizzanti, sono refrattarie a qualsiasi prospettiva escatologica, sono decisamente presentiste e legate al cambiamento, qui e ora, di certi aspetti esistenziali, sociali e politici e mirano a opporsi radicalmente e nell’immediato ad aspetti concreti, benché limitati, dei dispositivi di dominio. L’anarchismo contemporaneo cambia nella misura in cui si trova coinvolto, con altri collettivi, nelle lotte attuali, e inserisce nel proprio bagaglio le caratteristiche principali di tali lotte. In definitiva, l’anarchismo che cambia è l’anarchismo che lotta e che lotta al presente.


giovedì 16 settembre 2021

1848 il pensiero libertario francese - parte prima

Il 1848 non sopraggiunse come ripercussione della guerra e della sconfitta, come tante rivoluzioni del secolo successivo, ma fu il risultato di trentatré anni di pace europea, pace accuratamente mantenuta su una base consapevolmente controrivoluzionaria. La rivoluzione scaturì quasi in eguale misura sia da speranze sia da scontenti”. Attraverso il trentennio di “pace forzata” hanno modo di svilupparsi e di maturare appieno tutte quelle idee, quei valori e quei sentimenti che si erano consolidati nella Rivoluzione francese; concetti quali libertà e progresso si radicano acquistando nuova concretezza. Se si osserva e si analizza la cultura francese e più in generale la cultura europea del XIX secolo, nelle sue espressioni letterarie e artistiche che verranno poi connotate nella maggior parte dei casi col termine di “avanguardie”, appunto per il carattere innovativo e per certi versi stravolgente di queste forme d’espressione, ci si accorge, come esprime De Micheli all’inizio del suo saggio Le avanguardie artistiche del Novecento, che: “L’arte moderna non è nata per via evolutiva dall’arte dell’Ottocento; al contrario è nata da una rottura dei valori ottocenteschi”. Non si è trattato semplicemente di una rottura di tipo estetico: sarebbe riduttivo considerarla solo su questo piano e non si porterebbero in luce le cause, di tipo storico e ideologico, di questa frattura che va a toccare quella unità spirituale e culturale caratteristica dell’Ottocento. L’arte nuova è sorta proprio dalle polemiche, dalle rivolte e dalle proteste nate in seno a questa unità. “L’Ottocento europeo ha conosciuto una tendenza rivoluzionaria di fondo, attorno alla quale si sono organizzati il pensiero filosofico, politico, letterario, la produzione artistica e l’azione degli intellettuali”. L’azione per la libertà diviene uno dei cardini della concezione rivoluzionaria dell’Ottocento. Le idee anarchiche, socialiste e liberali, seppur in modo diverso, spingevano gli intellettuali a battersi non solo con le loro opere ma con le armi in pugno. Un esempio tra i più celebri si riscontra nella figura di Baudelaire, il quale durante le giornate parigine del Febbraio 1848 fonda un giornale rivoluzionario, “Le Salut Public”, contemporaneamente scrive la prefazione alle poesie di Pierre Dupont, ove esplicita il suo rifiuto per la dottrina estetica dell’art pour l’art, e senza esitare si unisce agli insorti col fucile in spalla. “Mai tanti poeti e letterati si sono mescolati così a una rivoluzione”. All’interno del movimento rivoluzionario borghese si comincia ad avvertire una sempre maggior pressione da parte delle forze popolari, fenomeno che viene visto dagli intellettuali come momento decisivo per la storia moderna. L’arte e la letteratura divengono l’immediato riflesso di questa realtà, espressione attiva del popolo. Chiarezza, evidenza, impegno, di-ventano i requisiti fondamentali di un’opera d’arte, uniti a una richiesta di comprensibilità e vicinanza per e al popolo. “In ogni campo è la realtà che preme, che irrompe, che decide. Le istanze della libertà sono istanze reali, concrete, definite: sociali, politiche, culturali. E tali istanze sono interdipendenti, impensabili separatamente”. La coscienza della stretta relazione tra arte e popolo si ritrova negli scritti di Courbet: “Senza la rivoluzione di Febbraio forse non si sarebbe mai vista la mia pittura. Rinnegando l’ideale falso e convenzionale, nel 1848 innalzai la bandiera del realismo, la sola a mettere l’arte a servizio dell’uomo. È per questo che ho lottato logicamente contro tutte le forme di governo autoritario e di diritto divino, volendo che l’uomo governi se stesso secondo i suoi bisogni, a suo diretto profitto e seguendo una propria concezione”. L’uomo e i legami con tutti gli aspetti del reale, della vita, anche con quelli più quotidiani, diventano il centro di una nuova estetica. È da specificare la tipicità della situazione francese e in particolar modo della capitale, che in questo periodo diventa crogiuolo delle arti e delle nuove idee politiche. Proprio da Parigi si è deciso di partire per analizzare la nascita di nuove forme di pensiero, che appunto per ciò che è stato detto fin ora hanno avuto anche risvolti artistici e culturali. I documenti dell’epoca – riviste, periodici, illustrazioni e dipinti – hanno guidato una ricerca che si è interrogata sulla nascita del pensiero libertario, tenendo conto sia del profilo prettamente storico sia delle manifestazioni artistiche che questo filone di pensiero ha elaborato per comunicare le proprie idee e i propri valori. L’analisi dei materiali è stata la testimonianza della nascente, ma già ben radicata “controcultura” dell’ epoca, in cui alle singole individualità si uniscono gli intellettuali, per i quali il desiderio di abbracciare la realtà più vera e più profonda aveva eccezionalmente creato uno spirito davvero rivoluzionario anche nell’arte. Le tecniche pittoriche prendono le distanze dai modi “naturalisti” tradizionali del discorso e della rappresentazione e comunicano l’importanza innovativa della relazione con la forma.



ISAIAH BEETHOVEN – Edgar Lee Masters

 


Mi dissero  che avevo tre mesi da vivere, 

cosi mi trascinai a Bernadotte, 

e per ore e ore sedetti accanto al molino, 

dove le acque raccolte, mosse in profondo, 

parevano immobili: 

o mondo, questo sei tu! 

Sei soltanto uno slargo nel fiume 

in cui guarda la Vita e con gioia la vediamo 

specchiarsi in noi, e cosi sogniamo 

e trascorriamo, ma quando torniamo 

a cercare quel volto, ecco le lande 

e piante secche, tra le quali ci gettiamo 

nella corrente più grande! 

Ma qui accanto al molino i castelli di nuvole 

si beffavano nell'acqua vertiginosa; 

e sul suo pavimento di agata, la notte, 

la fiamma della luna scorreva sotto i miei occhi 

tra la calma boschiva, rotta 

da un flauto in una capanna del colle. 

Alla fine, quando giacqui nel letto 

sofferente e stremato, circondato dai sogni, 

l'anima del fiume mi era entrata nell'anima, 

e la forza raccolta della mia anima mi stava muovendo 

cosi in fretta da parer ferma 

sotto villaggi di nuvole e sotto 

sfere d'argento e mutevoli mondi — 

finché vidi un bagliore di trombe 

sui bastioni del Tempo!


LA PUBBLICITÀ

La pubblicità è il vero in e per sé. l'unità assoluta dell'individuo e dell'oggettività. La definizione  di umanità secondo la quale essa è la pubblicità è adesso essa stessa pubblica. Ogni definizione precedente fa ritorno in quest’ultima. Ogni individuo effettivo, per quanto e un vero individuo, non ha la sua verità che nella pubblicità e in virtù di essa. L'individuo singolo è un lato qualsiasi della pubblicità, ciò perché, per lui, sono necessari ancora altre individualità che appaiano ugualmente come sussistenti in se  stesse in particolare;  è solo in esse tutte insieme e nelle loro  relazioni che l'individuo è realizzato. L'individuo per se stesso non corrisponde al suo  concetto; questo carattere limitato del suo essere separato costituisce la sua limitazione e la sua perdita. 

La pubblicità è la scienza assoluta, la realizzazione del Bello e del Bene, il reale esistente in sé -,e per sé: in se. Come identità semplice del  possibile e del reale, come essenza assoluta, contenente tutto il possibile e tutto il reale; per sé, in quanto potenza assoluta o semplicemente in quanto negatività che si rapporta a sé. Ecco in cosa consiste il movimento della pubblicità,  posto dai suoi momenti. Come elemento adeguato dell'umanità, la pubblicità è per prima cosa l'essenza reale, al bene che esiste. Unito all'apparenza di ciò che esiste. 

La pubblicità è la cosa più bella del mondo, più bella ancora di un   milione di dollari, perché essa è ciò che vi è di bello in un milione di  dollari. La pubblicità è una rivelazione più alta dell'arte e della filosofia perché essa è ciò che rivelano l'arte e la filosofia. La pubblicità è la vittoria sulle chimere, la novità eterna, la regola in cui geme il caos, il soggetto della conciliazione, lo scambio padroneggiato, la situazione costruita. Essa giudica ogni cosa. Essa è ammasso di certezza, gloria dell'universo. La pubblicità è un   fiume maestoso e fertile. La teoria è la tempesta, l'Hegelsturm. La teoria deve avere per scopo la pubblicità.


giovedì 9 settembre 2021

Proudhon sulla spontaneità

Quel che è importante rilevare nei movimenti popolari è la loro completa spontaneità. Il popolo obbedisce a un incitamento o ad una suggestione che viene dal di fuori, oppure ha una ispirazione, una intuizione o una concezione naturale?  Ecco, nello studio delle rivoluzioni, quel che si potrebbe stabilire, senza troppe pretese. Indubbiamente le idee che in qualsiasi epoca hanno agitato le masse erano nate dapprima nel cervello di qualche pensatore; in fatto d'idee, di opinioni, di credenze, di errori, la priorità non è mai stata delle moltitudini, e oggi non potrebbe essere altrimenti. In ogni  atto dello spirito la priorità è da attribuirsi all'individualità; il rapporto  dei termini lo descrive. Ma c'è una bella differenza tra questo e il fatto che qualsiasi pensiero che ispiri l'individuo s'impossessi  più  tardi delle popolazioni; e non è neppur vero che le idee che entusiasmano le popolazioni siano tutte giuste e utili; e diciamo appunto, che ciò che importa soprattutto allo storico e filosofo è osservare come presso il popolo attecchiscano certe idee anziché altre, vengano generalizzate, sviluppate a suo modo, come esso ne faccia delle istituzioni e dei costumi che segue per tradizione, fino a che non cadono nelle mani dei legislatori e dei giustizieri che ne fanno a loro volta degli articoli di legge e delle regole per i tribunali. 

La  rivoluzione non è opera  di nessuno.

Una Rivoluzione sociale come quella dell'89, che la democrazia operaia porta avanti sotto i nostri occhi, è una trasformazione che  avviene spontaneamente  nell'insieme e in ciascuna delle parti del corpo politico. È un sistema che si sostituisce ad un altro, un nuovo  organismo che prende il posto di una organizzazione decrepita. Ma questa sostituzione non si opera in un attimo, come un uomo che si cambi d'abito o di coccarda; non si attua all'ingiunzione di un maestro che abbia pronta la sua teoria, e neppure per rivelazione. Una Rivoluzione veramente organica, prodotto della vita universale, per quanto abbia i suoi messaggeri e i suoi esecutori, non è veramente opera di nessuno.


DARK NECESSITIES – Red Hot Chili Peppers

Uscendo fuori alla luce del giorno

Abbiamo molte lune in gioco nel profondo di noi

Così tengo d'occhio il sorriso dell’ombra

Per vedere cos’ha da dire


Tu ed io sappiamo entrambi che

Tutto se ne deve andare

Ah, cosa ne dici?


Ho un nodo che mi stringe il cuore

È come un po’ di luce e un pizzico di buio

Hai avuto un attacco furtivo da Zodiac

Ma vedo il tuo fuoco fare scintille


Mangia la "brezza" e vai

Soffio dopo soffio e va’ via

Ah, cosa ne dici?


Non conosci il mio pensiero

Non sai che tipo sono

I bisogni oscuri fanno parte della mia personalità e

Dì al mondo che

Sto cadendo dal cielo

I bisogni oscuri fanno parte della mia personalità


Inciampando fino al parcheggio

Non c'è tempo per i ripensamenti

Sono come il gelato per un astronauta

Beh, quello sono io che cerca un noi***

Gira l'angolo e

Trova il mondo ai tuoi comandi

Che fa la sua giocata


Non conosci il mio pensiero

Non sai che tipo sono

I bisogni oscuri fanno parte della mia personalità e

Dì al mondo che

Sto cadendo dal cielo

I bisogni oscuri fanno parte della mia personalità


Vuoi questo mio amore?

L’oscurità ci aiuta a far emergere la luce

Lo vuoi, lo vuoi adesso?

Lo vuoi tutto il tempo?

Ma l'oscurità ci aiuta a far emergere la luce

Lo vuoi, lo vuoi adesso?


Ah, ti raccolgo come in una cartina,

Indietro con il brano di un maniaco

Quindi io vengo da te e disfiamo i bagagli

È proprio come ieri


Comunque la rotoliamo

Tutto se ne deve andare

Ah, cosa ne dici?

Non conosci il mio pensiero

Non sai che tipo sono

I bisogni oscuri fanno parte della mia personalità e

Dì al mondo che

Sto cadendo dal cielo

I bisogni oscuri fanno parte della mia personalità


Ah ah...


Un membro dei Crass sulla pace

La nostra arte e la  nostro creatività  sono le nostre armi più  potenti. Dobbiamo usare lo  nostra fantasia per stabilire il nostro  futuro: incominciamo a preparare  il mondo nuovo. Nessuna rivoluzione  è auspicabile se non  si ha una  chiara visione di quello che si vuole  dopo. Non è forse giunto il  momento di chiederci per che cosa vogliamo  combattere? Creiamo  dunque le politiche  di comportamento per il nostro  futuro. Siamo  così spesso forzati alla  rinuncia, ci nascondiamo  dentro al nostro buco; al buio,  per guardare  la luce che brillo così  distante do noi. Non  è forse tempo che ci  muoviamo in direzione di quello luce? Adesso, forse, sono  giunto al momento più difficile  di questo mio scritto, il punto più: importante  per mettere allo prova la mia  natura essenzialmente  pacifista. Quando la gente  verrà a conoscenza di  qualche possibilità di  cambiamento reale, in un  primo momento si  limiterà ad assistere, a solidarizzare  passivamente, e solo in un secondo momento si sentirà coinvolta e  parteciperà attivamente  allo lotta. Lo stato, i suoi agenti, i suoi "amici" ed alleati (da qui  la necessità  di una rivoluzione internazionale) si  opporranno  alla concessione dello  libertà reclamata, libertà  allo quale la  gente non  sarà disposta a rinunciare. Per quelli che facevano  parte del grande  movimento pacifista degli ultimi anni '70, e che a quel tempo erano convinti delle  strategie puriste e pacifiste del primo movimento nonviolento, si porrà la  domanda cruciale: combattere o non combattere? Combattere oppure  sottomettersi all'inevitabile barbarie con cui lo stato reagirà alla  rivoluzione? Se il movimento pacifista  è davvero  schierato dalla parte  della pace, non può, in alcun modo tollerare  l'esistenza dello reato, soprattutto perché la pace così  come lo stato  l'intende non è altro che  una situazione generale di calma  e torpore, un senso  di sicurezza che lo stato può controllare direttamente. Se cerchiamo la pace, la vera  pace mettendo da parte le nostre  differenze, noi andiamo verso la  rivoluzione, poiché in nessun altro  modo le nostre domande troveranno  una  risposta. Verrà il momento in cui noi  non ci dovremo  più confrontare con  la polizia, ma con  l'esercito. So  che se il mondo non verrà prima distrutto dallo stato, verrà il tempo dello rivoluzione. So che tutti i pacifisti contribuiscono e hanno contribuito a questa  situazione. Quello che non so e se sarò oppure no disposto a prendere in mano un fucile. 



giovedì 2 settembre 2021

L’infanzia di Proudhon

Proudhon, quinto figlio di Claude-Francois e di Cathérine Simonin, è nato a Besançon il 15 gennaio 1809 nel quartiere popolare di Battant. Il padre, vignaiolo, bottaio, garzone di birreria e, per qualche tempo, birraio in proprio, era cugino di Franwis-Victor Proudhon, ricco e famoso giurista di Digione, e apparteneva a un ramo cadetto della stessa famiglia. Di intelligenza comune, ma di onestà rigidissima, quando gestì una birreria si rovinò perché vendeva la birra a un prezzopiù basso, ma a suo parere più giusto di quello corrente; e perché rifiutava l'ingresso alle donne per non tener mano alla prostituzione, con la quale altri birrai si arricchivano. Circa la condotta del padre Proudhon scrisse: «Sentivo perfettamente ciò che vi era di leale e di regolare nel metodo di  mio padre, ma vedevo tuttavia anche i rischi che ne derivavano. La mia coscienza approvava la prima  considerazione, il sentimento della mia sicurezza mi spingeva verso la seconda. Fu per me un enigma». La madre, servente nella birreria nella quale era occupato il marito, poi votata a umili lavori, era una donna di grandi virtù e di carattere esemplare. Era figlia di una singolare figura di popolano, Jean Claude Simonin detto Tournési, sempre  in lotta, in nome della giustizia, mai dell'interesse personale, contro la  prepotenza dei signori e dei loro guardiani. La formazione morale di Proudhon deve molto — egli ne fu consapevole e ne scrisse in termini di profonda umanità — alla madre e al nonno, cui assomigliava fisicamente, e del quale la madre gli raccontava le imprese. Dopo un'infanzia passata a custodire  vacche, a servire in birreria, entra nel 1820 nel collegio di Besançon come allievo esterno, grazie alla borsa  ottenuta con l'aiuto di un amico dei genitori. Nonostante le difficoltà materiali e psicologiche della  sua posizione sociale, egli fu uno degli allievi migliori. Ma povero in  mezzo a ricchi, costretto a farsi prestare i libri, a lasciare sulla soglia dell'aula gli zoccoli che  calzava per non fare rumore, a subire amare delusioni come quella di un giorno in cui, tornato a  casa dopo aver ottenuto una menzione onorevole, non trovò di che mangiare, esperimentò duramente l'inferiorità sociale che lo separava dagli altri ragazzi, senza tuttavia piegarsi. Si chiedeva «che cosa fosse la povertà, questo male di cui si sentiva innocente». Perse la fede religiosa leggendo, nel 1824, il Traité de  l'existence de Dieu di Fenelon, e cercò da solo, col suo pensiero, la sua via. Nel 1827, ormai prossimo al baccalaureato, dovette abbandonare la scuola per aiutare la famiglia. Si occupò presso una tipografia di Besançon, e trovava nel lavoro, e nel bastare a sé stesso, una  profonda soddisfazione. Correggeva bozze, componeva libri, e leggeva moltissimo, in specie opere di teologia, e soprattutto la Bibbia. Studiò l'ebraico per approfondire la conoscenza del cristianesimo.


ALPHABET CITY – Amos Poe

In Alphabet City, uno dei quartieri suburbani di New York, lo spaccio della droga è monopolio di un certo Gino, che si avvale, strada per strada, di vari distributori di medio calibro. Così Johnny fa il buono e cattivo tempo sulla intera strada assegnatagli, dove a sua volta ha amici e piccoli spacciatori. Il clima generale è di oppressione, violenza e miseria. Gino chiede a Johnny di bruciare il palazzo in cui vive sua madre, per ricevere i soldi dell'assicurazione. Johnny parla con la madre, ma questa si rifiuta di andarsene. La sorella di Johnny, Sophia, pensa soltanto a divertirsi e non si rende conto della gravità della situazione. Johnny non può ubbidire, e capisce che finalmente è arrivata l'ora di lasciare Alphabet City per sempre: non è lì che vuol restare. Torna al Village e spiega alla moglie Angie che le cose si stanno mettendo male e che bisogna lasciare la città immediatamente. Mentre Angie prepara il bambino per la partenza, Johnny scende ad Alphabet City per compiere per l'ultima volta il suo giro notturno. Gino intuendo la sua fuga, gli manda due killer per farlo fuori, ma Johnny li elimina, e grazie al provvidenziale intervento di un amico, Gino cade ucciso e Johnny e famiglia partono a razzo verso un avvenire più pulito e libero.

Alphabet City è una “città” di cinquantasei isolati. Si trova nella parte sud-est di Manhattan, il più importante dei cinque borghi in cui si divide New York. Prende il nome dalle quattro avenues in cui è suddivisa: A, B, C, D. È abitata in massima parte da immigrati di lingua spagnola. Negli ultimi anni, a causa dei bassi affitti, molti giovani vi si sono trasferiti. Alphabet City è nota in tutto lo stato per ospitare il più grande spaccio di eroina di New York. A causa di questo mercato Alphabetland è terra bruciata: gli edifici crollano e nessuno li ripara, i proprietari bruciano le case per incassare le assicurazioni, i delinquenti e i ricercati vi si rifugiano, la gente ha paura di andarvici. Ma la città dell'alfabeto è anche terra di artisti marginali, pittori di graffiti, breakers dancers, bande di rumoristi e gallerie emergenti. Uno dei punti di forza del film è costituito dalla precipitosa velocità con cui hanno luogo le scene d'azione. In queste scene sembra di assistere ad una costante accelerazione spettacolare, tanto simile allo spirito della metropoli americana in cui il film è ambientato. È un elemento visceralmente newyorkese, incarnato nei suoi abitanti, nei lavori che queste persone fanno, nella musica che ascoltano, nei ritmi delle loro vite, nella cocaina che è la droga più abusata di Manhattan. Alphabet City parla di tutto ciò e lo fa sul posto. Il club in cui Johnny spaccia la sua merce ai ricchi è un reale ritrovo della borghesia culturale newyorkese (l'Area Club). Così come del resto gli edifici diroccati, gli spiazzi coperti di macerie, le case semidistrutte abitate da immigrati portoricani, i fuochi accesi nelle strade, la polizia alla ricerca di delinquenti, non appartengono solo alla finzione sullo schermo, ma hanno costituito il fascino delle quasi tre settimane di riprese notturne tra le strade di Alphabet City, in un delirante gioco di slittamenti tra realtà e finzione. Nessuno dei presenti dimenticherà ad esempio il centinaio di spettatori portoricani da tenere alla larga fino alle quattro del mattino, così come la paura di finire nell'isolato sbagliato dove tutto ciò che un blocco di palazzi più in là era finzione filmica, lì invece diventava terribile disgregazione metropolitana. Ma, un mese dopo la fine delle riprese, arriva la notizia bomba: stanno ripulendo Alphabetland. Spinti dagli interessi dei proprietari dei palazzi e da quelli dei politici in anno di elezioni, centinaia di poliziotti hanno cambiato per sempre il volto della città dell'alfabeto: gli spacciatori sono stati cacciati, i progetti per la ricostruzione sono stati approvati e Alphabet City è diventato a sua insaputa un documento storico.



Lorenzo Ghezzi

Nasce a Roma nel 1880 (data incerta) da Paolo e Natalina Massini, di professione garzone in una bottega di cappelleria, abitante al civico 3 di piazza Santa Apollonia, deceduto, a Roma, l'11 ottobre 1897 all'età di 17 anni. La sua vicenda è legata alla sua morte avvenuta nel corso degli incidenti occorsi intorno la sede del Ministero dell'Interno a piazza Navona, durante una dimostrazione dei commercianti romani contro la tassa sulla ricchezza mobile. Alla protesta parteciparono attivamente anche numerosi garzoni di bottega, operai, artigiani e «gruppi di giovinastri uniti a ragazzi e a gente delle infime classi». Al tentativo di invasione del dicastero da parte dei dimostranti, seguirono violenti incidenti con la forza pubblica che si trasformarono in «aperta rivolta» cui Ghezzi prese «parte attivissima» insieme a un gruppo di anarchici e socialisti, che più volte venne respinto dalla piazza e più volte tentò di rientrarvi forzando i cordoni di pubblica sicurezza. Un ultimo tentativo si verificò da via dell'Anima, all'altezza di via dei Lorenesi, dove il gruppo di rivoltosi diede vita a una fitta sassaiola verso i soldati i quali risposero sparando colpi di fucile. La folla indietreggiò, ma sul suolo rimasero due persone: Sabato Moscato, un venditore ambulante di 28 anni, gravemente ferito alla gola e il giovane Ghezzi, colpito all'altezza della meninge destra e deceduto sul posto. Il giornalista Roberto de Fiori, presente agli eventi e interrogato in sede processuale, così ricostruì il fatto: «Tra i dimostranti ricordo vi era un giovanotto il quale stando in mezzo a via dell'Anima continuamente ed accanitamente tirava dei grossi selci, e, se non erro, egli fu quello che mentre raccoglieva un altro sasso per lanciarlo fu colpito» alla testa. Meglio noto alla stampa e alle autorità come “Ghezzi”, nella storpiatura italianizzante del suo cognome di origine tedesca, Lorenzo, apparteneva al circolo socialista-anarchico denominato “Tevere”, sorto quello stesso anno. Tale appartenenza lo collocava nell'area malatestiana del movimento libertario romano che, in quell'anno, si distinse dai circoli influenzati da Francesco S. Merlino disponibili alla partecipazione elettorale, costituendo il “Tevere” che assumeva invece l'astensionismo politico quale tratto programmatico distintivo. La sua morte suscitò un vivo cordoglio in città. L'insieme del movimento anarchico capitolino ne rivendicò l'appartenenza omaggiandolo con un estremo saluto al cimitero del Verano, dove era stato sepolto, deponendo due corone di fiori, una a firma «anarchici di Roma», la componente socialista-anarchica, e l'altra da parte degli individualisti del «Nucleo anarchico romano». I familiari della giovane vittima, di sentimenti cattolici, vollero invece apporre una croce sul muro del palazzo dove era avvenuto il delitto, che il questore fece però rimuovere in tutta fretta la sera stessa. Il quotidiano romano «Il Messaggero» aprì un fondo in favore della famiglia, cui si unì l'associazione dei commercianti romani, promotrice della dimostrazione, che invitò i suoi affiliati a sostenere la sottoscrizione. Dei responsabili della morte si seppe poco; a esplodere i colpi di fucile in via dei Lorenesi erano stati quattro soldati del XI reggimento di fanteria (Antonio Marcenò, Napoleone Poggiati, Carlo Rosso e Giuseppe Piccinini), ma ai militi non furono imputati di alcun reato. Dal verbale dell'autopsia sappiamo che il giorno della morte, Ghezzi era vestito con una giacca e pantaloni blu, una camicia turchese con piccole ancore bianche, una maglia di colore nero, dei calzini rossi con la soletta bianca e le scarpe. In tasca portava un fazzoletto bianco con i bordi rossi, un portafogli di pelle marrone, un quadernetto con su scritto libretto di memorie che conteneva disegni di figure a matita, 2 lire e 30 centesimi e due pezzi di sigaro.