Provincia americana profonda, anni ’70. Cindy è una ragazza che attraversa le difficoltà dell’adolescenza ed è frustrata dalla vita priva di orizzonti. La sua ribellione trova sfogo nel suonare la batteria, negli atteggiamenti della generazione punk, nel non andare a scuola, nel Rock and Roll, e adora Elvis Presley. Detesta la disco-music, odiosa colonna sonora della sua epoca. Il padre, Don, è un camionista, beve come una spugna e da sei anni in carcere perché un giorno completamente ubriaco e alla guida del suo bisonte di gomma, sperona uno scuolabus, causando la morte di una quindicina di bambini. La mamma Kathy lavora in un fast-food è tossicomane e va a letto con il gestore del locale e con altri a caso. Disperata la ragazzina scappa di casa e ha dei guai con la polizia. Ritorna a casa in tempo per vedere uscire di prigione il padre. Ma la serenità in famiglia non torna, i problemi non tardano a riaffacciarsi, fino a travolgere i tre protagonisti. In un tragico epilogo Cindy uccide il padre a forbiciate e poi fa saltare in aria il vecchio camion su cui è salita insieme alla madre.:” “Sovvertire la normalità!”, è questo il grido di battaglia della quindicenne Cindy protagonista e strabiliante mattatrice di Out of the Blue terza regia di Dennis Hopper, il suo film più sovversivo e dinamitardo, osteggiato e “messo a tacere” dall’industria hollywoodiana del tempo. Una parabola anarchica e tragica su quel che resta del sogno americano. Cindy, la sua famiglia, i suoi concittadini, c’è un epiteto dal conio tutto statunitense per descriverli: “white trash” (spazzatura bianca) un dispregiativo razzista rivolto a quegli individui di razza caucasica che sono e resteranno sempre ai margini. La loro colpa è forse una sola: aver rinunciato alla mobilità, al viaggio, prerogative dell’homo americanus, per assemblarsi nei sobborghi ai confini di una grande città. Dropouts e junkies, più che outsiders, i personaggi di Out of the Blue sono degli emarginati capaci solo di girovagare di bar in bar, di bancone in bancone, talvolta stanziali sul divano di casa, sullo sfondo di lacere tappezzerie. La Summer of Love è d’altronde già lontana e con essa anche gli ideali di libertà. È un universo privo di speranza quello descritto da Hopper, fatto di lucidi diner, insegne luminose dei bar, droga, prostituzione, sopraffazione, lo scenario ideale per una tragedia annunciata, il cui determinismo è solo in parte mitigato dall’energia spavalda e contagiosa di Cindy, ultima utopista in un piccolo inferno suburbano e domestico. Con entusiastica partecipazione e tangibile affezione, Hopper fa risaltare sullo schermo la sua protagonista, le concede tutto lo spazio e il tempo che ritiene necessari, duetta con lei in scena con rara naturalezza, mentre traduce in immagini e suoni una sorta di tetra ballata country-blues, l’estremo inno a un’America che non c’è più. E dunque, in questa prospettiva storica, Out of the Blue si fa epitome di un nichilismo perduto, di un cinema indipendente libero fino al punto di essere autodistruttivo. DENNIS HOPPER:« Sono stato scelto per recitare in Out of the Blue. Due settimane dopo ho sostituito il regista, e con piena autonomia, perché le due ore e mezza di riprese già realizzate erano inutilizzabili. Ho riscritto l’intera sceneggiatura nel fine settimana e ho cominciato a girare il lunedì. Sotto molti aspetti, è forse il mio film migliore. Parla della società del Nord America e dello sgretolamento del nucleo familiare. Io ritraggo la protesta sociale, non riesco a farne a meno. Non conosco molto del passato, non sono interessato al futuro né allo spazio. Mi piace fare cose su quello che vedo. Per una persona come me è un miracolo avere l’opportunità di dirigere un film: non ascolto nessuno, e gli unici collaboratori che ho sono i miei attori».
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