A distanza di cinquant’anni, nonostante i quartieri e le sue forme di socialità siano irrimediabilmente scomparsi, le pratiche anti-utilitarie proposte dai situazionisti restano realizzabili e valide: utilizzare in modo creativo e ludico lo spazio-tempo sociale, riappropriarsi di spazi abbandonati per praticare forme di autogestione, ricostruire forme di solidarietà e di socialità, sono tutte forme di lotta non solo sempre possibili ma che dimostrano di attrarre le persone che non si rassegnano all’impotenza.
Gli orti urbani, nati negli anni Settanta e in continua espansione, sono un esempio concreto, semplice quanto significativo, di questa attitudine di riappropriazione della città. I situazionisti avevano suggerito che solo da un progetto di autocostruzione e autogestione di esperienze condivise può svilupparsi una possibilità di resistenza e ribaltamento della cappa totalitaria del dominio dell’economia. Oggi più che mai questo bivio è evidente.
Di fronte allo spettro delle barbarie, la rabbia nichilista che non riesce a nutrirsi di un progetto costruttivo, risulta sterile.
Contemporaneamente molte lotte portate avanti da schiere di volenterosi militanti ci suggeriscono che il richiamo all’etica e la mobilitazione dell’indignazione degli altri contro le peggiori nefandezze e nocività di questo sistema di morte non bastano. E il discrimine tra una lotta partecipata e una autoreferenziale non passa da questioni annose, come la falsa alternativa pacifismo o uso della violenza, ma dal coinvolgimento o meno delle persone in questioni che sentono riguardare da vicino il qualitativo del loro quotidiano.
Per questi motivi, a chi osserva e vuole influenzare i mutamenti in atto, il creare forme di vita ed esperienze condivise, così come l’inventare un nuovo immaginario e nuovi desideri, non appariranno slogan di una rivoluzione utopistica del passato, ma i possibili nodi di svolta per un’ipotesi concreta di una trasformazione dell’esistente, che risulta più necessaria e urgente che mai.
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