Chiamare società il popolo di estranei in cui viviamo costituisce una tale usurpazione che anche i sociologi, i quali per un secolo hanno trovato in quel concetto il proprio mezzo di sostentamento, pensano
ormai di rinunciarvi. Oggi preferiscono la metafora della rete per descrivere le modalità di connessione di solitudini cibernetiche, le deboli
interazioni conosciute sotto il nome di collega, contatto, amico, relazione o avventura. Accade puntualmente che queste reti si
condensino in ambienti, in cui si condividono però solo dei codici e in cuisi gioca unicamente all’incessante ricomposizione di un’identità.
La decomposizione di tutte le forme
sociali è un ottima occasione. È per noi la condizione ideale per una massa, selvaggia, di nuovi concatenamenti e nuove col mondo, impostoci dalla famosa abdicazione
sociali è un’ottima sperimentazione di fedeltà. Il confronto genitoriale, ci ha costretti a una precoce lucidità e promette bei momenti di rivolta. Dalla
morte della coppia, sorgono inquietanti forme di affettività collettiva, ora che il sesso è logoro, che virilità e femminilità sono abiti usurati, che tre
decenni di innovazioni pornografiche hanno esaurito ogni attrattiva per la
trasgressione e la liberazione. Quanto di incondizionale attiene ai legami
di parentela può infine costituire l’armatura di solidarietà politiche impenetrabili all’ingerenza statale come un accampamento di zingari.
Anche le interminabili sovvenzioni che molti genitori sono costretti a
versare a rampolli proletarizzati possono trasformarsi in una forma di mecenatismo in favore della sovversione sociale. In ultima analisi, divenire autonomi potrebbe significare anche imparare a battersi nelle strade, a occupare case vuote, a non lavorare, ad amarsi follemente e a
rubare nei grandi magazzini.
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