Creare dei territori. Moltiplicare le zone d’ombra.
Sempre più riformisti oggi convengono sul fatto che avvicinandosi al
peak oil e per ridurre le emissioni di gas bisogna rilocalizzare
l’economia, favorire le produzioni regionali, i circuiti brevi della
distribuzione, rinunciare alla facilità delle importazioni da paesi lontani
ecc. Quello che dimenticano è che la specificità economica di tutto ciò
che si fa localmente è commerciare in nero, in maniera informale; che
questa semplice misura ecologica di ri-localizzazione economica implica
niente meno che l’affrancamento dal controllo statale, o la sottomissione senza riserve.
Il territorio attuale è stato prodotto da secoli di operazioni poliziesche. Abbiamo cacciato i popoli fuori dalle loro campagne, poi fuori dalle loro
strade, poi fuori dai loro quartieri e infine fuori dai cortili delle loro case, nella speranza demente di contenere tutta una vita nelle quattro mura sudaticce
del privato. per noi la questione del territorio non si pone come per lo Stato. Non si tratta di tenerselo. Si tratta di intensificare
localmente le comuni, le circolazioni e la solidarietà fino al punto in cui il
territorio diventi illeggibile, opaco per ogni autorità. Non è questione di occupare, ma di essere il territorio.
Ogni pratica fa esistere un territorio - territorio di spaccio o di
caccia, territorio di gioco per bambini, di innamorati o di sommossa, territorio del contadino, dell’ornitologo o dello sfaccendato. La regola è semplice: più esistono territori che si posizionano su una zona
data, più c’è una circolazione fra loro, meno il potere fa presa. Bistrots, stamperie, palestre, campi incolti, infoshops, mercati
improvvisati, kebab, garages, possono sfuggire facilmente alla loro
vocazione ufficiale per lasciare spazio alle complicità possibili.
L’autorganizzazione locale, imponendo la propria geografia alla
cartografia statale, la brucia, la annulla; produce la sua stessa secessione.
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