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giovedì 23 luglio 2015

L’autoorganizzazione locale

Sempre più riformisti oggi convengono sul fatto che avvicinandosi al  peak oil e per ridurre le emissioni di gas bisogna rilocalizzare  l’economia, favorire le produzioni regionali, i circuiti brevi della distribuzione, rinunciare alla facilità delle importazioni da paesi lontani ecc. quello che dimenticano è che la specificità economica di tutto ciò
che si fa localmente è commerciare in nero, in maniera informale; che questa semplice misura ecologica di ri-localizzazione economica implica  niente meno che l’affrancamento dal controllo statale, o la sottomissione  senza riserve.  Il territorio attuale è stato prodotto da secoli di operazioni poliziesche. Abbiamo cacciato i popoli fuori dalle loro campagne, poi fuori dalle loro strade, poi fuori dai loro quartieri e infine fuori dai cortili delle loro case, nella speranza demente di contenere tutta una vita nelle quattro mura sudaticce  del privato. Per noi la questione del territorio non si  pone come per lo Stato. Non si tratta di tenerselo. Si tratta di intensificare localmente le comuni, le circolazioni e la  solidarietà fino al punto in cui il  territorio diventi illeggibile, opaco per ogni autorità. Non è questione di occupare, ma di essere il territorio. Ogni pratica fa esistere un territorio-territorio di spaccio o di caccia, territorio di gioco per bambini, di innamorati o di sommossa, territorio del contadino, dell’ornitologo o dello sfaccendato. La  regola è semplice: più esistono territori che si posizionano su una zona data, più c’è una circolazione fra loro, meno il potere fa presa.  Bistrots, stamperie, palestre, campi incolti, infoshops, mercati improvvisati, kebab, garages, possono sfuggire facilmente alla loro vocazione ufficiale per lasciare spazio alle complicità possibili.
L’autoorganizzazione locale, imponendo la propria geografia alla  cartografia statale, la brucia, la annulla; produce la sua stessa secessione.

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