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giovedì 29 marzo 2018

Il Comunalismo di di Murray Bookchin

Mentre entriamo nel ventunesimo secolo, i radicali sociali hanno bisogno di un socialismo – libertario e rivoluzionario – che non sia né un prolungamento dell’«associazionismo», di tipo contadino e artigianale, che troviamo al centro dell’anarchismo, né l’«operaiolatria» che troviamo al centro del sindacalismo rivoluzionario e del marxismo. Tentare di rianimare il marxismo, l’anarchismo o il sindacalismo rivoluzionario, dotandoli di un’immortalità ideologica, sarebbe un ostacolo allo sviluppo di un importante movimento radicale. È mia opinione che il comunalismo sia la categoria politica generale più adatta a comprendere pienamente una visione ben ponderata e sistematica dell’ecologia sociale. Come ideologia, il comunalismo attinge alla migliore tradizione delle vecchie ideologie di sinistra –marxismo e anarchismo o, più propriamente, la tradizione socialista libertaria – offrendone una visione più vasta e rimarchevole per il nostro tempo. La scelta del termine comunalismo per affrontare le componenti filosofiche, storiche, politiche e organizzative di un socialismo per il ventunesimo secolo non è avventata. Il termine trae origine dalla Comune di Parigi del 1871, quando nella capitale francese il popolo armato salì sulle barricate non solo per difendere il consiglio comunale di Parigi e le sue sotto strutture amministrative, ma anche per creare una confederazione nazionale di città e paesi, in sostituzione dello Stato-nazione repubblicano. Il comunalismo, come ideologia, non è contaminato dall’individualismo e dall’antirazionalismo, spesso esplicito nell’anarchismo; né porta il peso dell’autoritarismo marxista esplicitato nel bolscevismo. Esso non si concentra sulla fabbrica come suo principale campo sociale o sul proletariato industriale come suo principale agente storico e non riduce le libere comunità del futuro in comunità irreali di stampo medievale. Certamente oggi il pensiero filosofico e sociale deve confrontarsi con l’irreversibile degrado ambientale prodotto da un capitalismo senza freni: un fatto evidente di cui la scienza ci parla da più di cinquanta anni, mentre i progressi della tecnica cercano solo di mascherarlo. Ogni vantaggio che ci hanno portato l’industrializzazione e il capitalismo, ogni miglioramento nella scienza, nella salute, nella comunicazione e nel benessere getta ormai la stessa ombra letale. Il capitalismo si fonda per definizione sulla crescita; «per il capitalismo desistere dalla sua crescita insensata significherebbe commettere un suicidio sociale». Evidentemente abbiamo semplicemente preso il cancro come modello del nostro sistema sociale. L’imperativo capitalista di «crescere o morire» si scontra radicalmente con gli imperativi ecologici dell’interdipendenza e della sussistenza. Queste due visioni non possono più coesistere tra loro, né potrà sopravvivere una società fondata sul mito di questa coesistenza impossibile. O sapremo realizzare una società ecologica o non ci sarà più una società per nessuno, indipendentemente dal suo status.

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