Secondo Walter Benjamin attraverso una immersione percettiva e sensoriale-emozionale nei percorsi cittadini, il “camminatore lento e vagabondo” ( il flaneur) è testimone di un incontro tra pensiero e città che porta a più intima conoscenza delle diverse dimensioni urbane. L’arte della “camminata di quartiere” è diventata nel tempo una tecnica ricorrente degli etno-antropologi e degli urban planners. Le metropoli moderne sono delle reti dove perdersi non solo è facile, ma anche affascinante. Dimentichi per un attimo del nostro percorso pedonale quotidiano, immaginiamo una giornata in cui, invece di proseguire verso l’abituale luogo di lavoro, scendiamo ad una fermata a caso, e iniziamo a vagabondare per la città. Iniziamo a perderci. Camminare non per arrivare a destinazione, ma per il gusto di farlo, per il gusto di scoprire angoli mai visti. La letteratura, di questi “vagabondi urbani”, ne ha fatto una figura tipica: il flaneur. Il flaneur compare per la prima volta a metà del secolo XIX a Parigi. E’ il passante, una sorta di incrocio tra il bohème e il vagabondo, che cammina senza meta per le strade della città, fermandosi ogni tanto a guardare. Nel suo ruolo di osservatore il flaneur stabilisce una relazione particolare con la città, abitandola come se fosse la propria casa. Il suo percorso non coincide con il resto della moltitudine; quello che per il passante è un cammino predeterminato – il percorso del mercato, direbbe Walter Benjamin – per lui è un labirinto che cambia forma ad ogni passo: si lascia guidare dal colore di una facciata, l’inquietante uniformità di alcune finestre, lo sguardo di una mulatta. Baudelaire vede nel flaneur l’archetipo dell’artista moderno (che doveva avere “qualcosa del flaneur, qualcosa del dandy e qualcosa del bambino”), l’unico capace di rappresentare la liquidità della vita moderna. Nel novecento l’arte del passeggio praticata dal flaneur è sostituita dalla pratica surrealista della deambulazione, che consisteva nel passare da un contesto urbano all’altro, vagando per la città in cerca di associazioni mentali stimolate dal montaggio psichico dei frammenti urbani assaggiati. Al Surrealismo fa eco negli anni ’50 il Situazionismo, che con Guy Debord riprende la pratica del vagabondaggio urbano chiamandolo deriva psicogeografica. La Psicogeografia è un gioco e allo stesso tempo un metodo efficace per determinare le forme più adatte di decostruzione di una particolare zona metropolitana. Così la definisce Debord: “Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che SAPETE, ma in base a ciò che VEDETE intorno. Dovete essere STRANIATI e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’ARCHITETTURA e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari.” Se vogliamo continuare a giocare, a rintracciare le varie reincarnazioni moderne del mito del flaneur nella nostra societa’, possiamo chiudere il cerchio con i writer metropolitani, quei fantasmi che attraversano di notte le nostre metropoli lasciando una traccia grafica del proprio passaggio, e a volte anche sottili messaggi. Il senso ultimo di tutte queste forme di nomadismo urbano in fondo è quello di attribuire a luoghi asettici della metropoli altri significati, cercare di collegare gli spazi della geografia urbana a qualche significato che non sia soltanto funzionale, ma anche sociale.
Nessun commento:
Posta un commento