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giovedì 30 giugno 2022

La pena di morte – Errico Malatesta

Nell'autunno di 55 anni fa, all'indomani dell'attentato Zamboni, il regime fascista si preparava a reintrodurre quella pena di morte che vi era stata cancellata fin dal 1889 (codice Zanardelli). Per la rivista Pensiero e volontà, di cui era redattore, l'anziano militante anarchico Errico Malatesta scrisse questo articolo, che però non poté esservi pubblicato... a causa della soppressione di tutta la stampa d'opposizione: apparve invece su Il risveglio anarchico (Ginevra), n.867 dell'11 febbraio 1933 - quasi un anno dopo la morte di Malatesta. 

Pare quasi certo che in Italia sarà ristabilita la pena di morte.

È naturale. Ognuno, individuo o collettività, si difende come sa e può. Chi non riesce ad assicurare la sua esistenza e la sua libertà di sviluppo, conquistando il consenso, la cooperazione, l'amore degli altri mediante la reciprocità dei benefici e della simpatia, deve affidarsi alla violenza, alla forza bruta. E allora, per chi ne ha il potere, il mezzo più spiccio, se non sempre il più sicuro, per garantirsi contro i possibili pericoli è quello di sopprimere i propri nemici: il massacro se si hanno contro delle masse, la pena di morte se si ha da fare con degli individui. Può disdegnare il ricorso alla violenza chi si sente veramente forte, moralmente o materialmente; ma chi non è sicuro di sé, è sempre, pur nello sfolgorio della sua apparente potenza, tormentato dalla paura, è fatalmente condannato a tremare - e perciò è violento. Noi che auspichiamo la pace e la fratellanza fra tutti gli esseri umani, noi che consideriamo un progresso - il migliore dei progressi - ogni addolcimento dei costumi, ogni trionfo della forza morale sulla forza materiale, non possiamo che fremere d'orrore a quest'altro passo indietro verso la barbarie. Ma questi sono tempi ferrigni, tempi "romani", ed i nostri sentimentalismi faran sorridere di disprezzo i fautori dell'Italia imperiale. Non ripeteremo gli argomenti classici contro la pena di morte. Essi ci paion menzogne, quando li sentiamo sostenere da chi è poi partigiano dell'ergastolo ed altri disumani surrogati della pena di morte. Né parleremo della "santità della vita umana" che tutti affermano, e tutti violano all'occasione, sia infliggendo direttamente la morte, sia trattando gli altri in modo da tormentare ed abbreviare la loro vita. Vi sono - pochi per fortuna, ma vi sono certamente - degli uomini, nati o diventati dei mostri morali, sanguinari e sadici, di cui non sapremmo compiangere la morte. Quando questi disgraziati fossero un pericolo continuo per tutti e non vi fosse altro modo di difendersi che l'ucciderli, si potrebbe anche ammettere la pena di morte. Ma il guaio si è che per applicare la pena di morte ci vuole il boia. Ora il boia è, o diventa un mostro; e, mostro per mostro, è meglio lasciar vivere quelli che vi sono, anziché crearne degli altri. E questo s'intende per i veri delinquenti, esseri anti-sociali che non riscuotono nessuna simpatia e non provocano nessuna commiserazione. Che se si tratta della pena di morte come mezzo di lotta politica, allora... allora la storia ci dice quali possono essere le conseguenze. Ecco. Noi siamo dei cosmopolitani, noi amiamo tutti i paesi come amiamo l'Italia; noi ci rallegriamo di ogni gioia ed ogni gloria umana, come soffriamo per ogni dolore ed ogni vergogna umana, senza distinzione di razza o di nazionalità - e per questo siamo considerati anti-patrioti ed anti-nazionali. Eppure, forse per atavismo, forse per la maggiore solidarietà che naturalmente ci lega a quelli che ci stanno più vicini, noi non sapevamo liberarci da un senso di orgoglio quando credevamo di poter dire: In terra d'Italia non alligna il boia. Dovremo rinunziare anche a questa illusione? a questo residuo orgoglio nazionale?



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