Dopo aver lasciato la scuola ed essere scappata di casa, Dawn si dirige nella grande città in cerca di «vita dissoluta», cosa non sempre facile da trovare nel centro di Baltimora. Presto inizia un legame sentimentale con un grasso zoticone di nome Earl (sempre Divine che interpreta un ruolo maschile) e dà alla luce la sua bambina illegittima, Taffy (Mink Stole). Col passare degli anni Dawn sposa Gator (Michael Potter), un parrucchiere macho ma presto divorzia da lui a causa dei problemi con quella vecchia strega di sua zia, Ida (Edith Massey). Taffy cresce diventando una giovane gravemente disadattata, rintraccia suo padre e lo uccide e in un atto finale di ribellione entra negli Hare Krishna per dare sui nervi alla madre. Stanca della maternità, annoiata dalla vita in generale, Dawn incontra Donald e Donna Dasher (David Lochary, Mary Vivian Pearce), due estetisti fascisti che gestiscono il Lipstick Beauty Salon. Lusingata dalla loro attenzione elitaria Dawn cede in breve al lavaggio del cervello e alla tecnica di controllo della mente dei Dasher. Stimolata dai bizzarri trattamenti di bellezza e dalle promesse di celebrità Dawn diventa la cavia dei Dasher e si getta a capofitto nel loro programma «crimine è bello». La vetta del successo criminale di Dawn viene raggiunta quando va su tutte le furie durante il suo numero di lancio in un nightclub locale e inizia a sparare ai membri del pubblico con «intenti artistici». Catturata infine dalle autorità, viene condannata alla pena di morte sulla sedia elettrica, una morte a lei gradita per via della sua credenza nevrotica che la pena di morte sia l'equivalente di un Oscar nella professione del crimine che ha scelto.
Non ci si può aspettare correttezza politica nella trama di un film di un regista che è considerato dai freaks di tutto il mondo come il loro papà. Dawn Davenport (Divine) è un’adolescente piena di rabbia che scappa di casa e rimane incinta di un molestatore che le ha dato un passaggio (tra l’altro interpretato sempre da se stesso). Abbandonata dall’uomo, da adolescente di periferia si trasforma in delinquente seriale, rapinatrice, prostituta, modella, assassina, galeotta, ma soprattutto nella parodia della figura della madre (“Ho fatto tutto quello che una madre può fare, l’ho rinchiusa nella sua stanza, l’ho picchiata con l’antenna dell’auto. Niente la cambia!”)
La critica di John Waters è feroce e il suo spirito antiborghese non risparmia nessuno, neppure il presunto amore materno. Pur evitando di affondare nel disgusto più totale come nelle opere precedenti, “Female Trouble” è ancora una volta un film politicamente scorretto, capace di farci sorridere amaramente sulle disgrazie in cui si imbatte la nostra isterica Divine. Una pellicola sboccata e tragicomica quindi, a tratti talmente caotica da farci perdere la bussola: sono infatti davvero tanti i personaggi buttati nella mischia, molti dei quali presenze abituali nel cinema di Waters (Mary Vivian Pearce, Mink Stole, Edith Massey e David Lochary, poi prematuramente scomparso). Il lato trash di Baltimora al completo, come sempre. “Female Trouble” non è certo il capolavoro di John Waters, ma è un b-movie assolutamente degno della sua fama: è l’esaltazione del crimine nel modo più sbilenco e allucinato possibile, un ennesimo manifesto cinematografico intriso di controcultura che non rinuncia alle solite entrate a gamba tesa nei confronti dell’America perbenista. Dopotutto per conquistare un po’ di fama bisogna uccidere, garantisce Dawn Davenport.
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